Una collaborazione nata grazie ad uno scambio di mail dove ognuno confidava l’amore per la musica dell’altro, come una coppia di semplici fan un po’ nerd. Da cosa nasce cosa, come si dice in questi casi, e ci siamo ritrovati Peter Kember (Sonic Boom) ad occuparsi della produzione di alcuni dei dischi pubblicati da Noah Lennox (Panda Bear) negli ultimi anni. Quello è stato però solo il primo passo di un qualcosa che si è trasformato ulteriormente quando Sonic Boom ha raggiunto il collega a Lisbona, trasferendosi in pianta stabile nella città portoghese armato di sintetizzatori e di una fantastica collezione di dischi da cui attingere.
Ci sono gruppi che, terminato il primo album, hanno bisogno di avvocati e di una consulenza matrimoniale per rientrare in uno studio di registrazione con i colleghi di un tempo. Ne sanno qualcosa, a questo proposito, sia lo stesso Noah Lennox nella sua avventura con Animal Collective e soprattutto Peter Kember che ai tempi degli Spacemen 3 ha registrato album interi senza mai rivolgere la parola e lo sguardo a Jason Pierce. Qui sono solo cuoricini che volano, invece. Parole di stima, attestati di gratitudine e, quello che più interessa a noi, un grandissimo album appena pubblicato (“Reset”) che porta in dote davvero il contributo di entrambi in egual misura.
Un disco che ha l’ambizione di mettere in primo piano l’essenza della musica pop, partendo da un semplice accordo, un riff, un bridge, un’armonia vocale e poi da lì, a strati, viene aggiunto quello che è necessario per completare la canzone, assecondando la natura artistica e la vocazione dei due protagonisti. Il quid iniziale, che diventa la base della canzone stessa, è per lo più un campionamento preso in prestito dalla sconfinata produzione rock’n’roll di fine anni cinquanta, inizio anni sessanta. Quindi sample di riff di chitarra di The Troggs, armonie vocali di Randy & the Rainbows, estratti di Eddie Cochran e così via. Interessante come, partendo da uno semplice spunto creativo rubato, Panda Bear e Sonic Boom, riescano a mettere in piedi una collezione di canzoni organiche, definite e compiute riuscendo a superare i confini della semplice sperimentazione per trasformare il tutto in essenzialità pop capace di guardare al passato e al futuro contemporaneamente.
Canzoni definite anche nella struttura portante di “songwriting” vero e proprio, con testi belli, mai banali, anche quando ridotti a delle semplici e ripetitive istanze nella tradizione della produzione di Sonic Boom. Sul sample preso in prestito si sviluppa un lavoro di addizione stratificata di armonie e falsetto vocale, di aperture di synth e ritmi essenziali che finiscono per suonare come una versione dei Beach Boys filtrati da un’ attitudine psichedelica non revivalista con traiettorie davvero inusuali. Come se l’eccentrica e geniale visione pop di Brian Wilson trovasse finalmente una decodificazione credibile e due interpreti degni di raccogliere quella pesante eredità e di darle un’ apparenza di pura contemporaneità.
Un album che funziona esattamente come canta Noah Lennox in “Whirlpool”, ad un certo punto: “mi trascini sempre più a fondo nella tua corrente / mi porti giù velocemente e mi lasci risalire molto lentamente”. La magia del perdersi e dell’abbandonarsi al sogno della musica, in sostanza.
Cesare Lorenzi
“La stampa musicale diede ampio credito a Spacemen 3 ma i loro dischi non vendettero mai molto.
La band fu ostacolata da una serie di idee che vengono in mente solo a quelle persone che consumano una grande quantità di droghe.
Una leggenda narra ad esempio che Jason Pierce e Pete Kember decisero di vendere le loro future royalties ad una società di pulizie industriali chiamata All Bright per potersi comperare eroina.
Poi con un tempismo squisito i due scelsero di liquidare il marchio Spacemen 3 nel 1990, proprio nel momento in cui il rock chitarristico e le droghe stavano per tornare di moda.”
(The Guardian 14/09/2001)

Mai come nel caso di Spacemen 3 sono corrette ambedue le ipotesi di giudizio.
Nei dischi della band inglese sono presenti una serie di interpretazioni da enciclopedia del punk rock psichedelico, semmai questa definizione possa essere ritenuta accettabile da qualcuno.
In edizioni live o di studio sono stati ripresi brani di MC5, Red Krayola, Thirteenth Floor Elevators, Mudhoney, Suicide, Bo Diddley, Sun Ra, Stooges giusto ad elencare i nomi più noti.
Dopo lo scioglimento della band sul suo repertorio hanno pensato di intervenire tipi come Flaming Lips, Mogwai, Low, Flowchart e Bardo Pond.
Insomma se conoscete, e pare impossibile il contrario, qualcuna delle bande elencate sopra potete tracciare da soli una mappa indicativa di quello che è stato il percorso culturale prima ancora che musicale del gruppo di Rugby.
Krautpunkdelia potremmo dire se volessimo rischiare di sporcare la nostra camicia della festa con i pomodori lanciati da lettori giustamente a corto di indulgenza nei confronti delle invenzioni giornalistiche.
Eppure è proprio questo il percorso che Pete Kember e Jason Pierce decisero di intraprendere un paio di decenni orsono.
Una strada che prende il suo abbrivio dall’esplosione rock di Detroit a fine sessanta, guidata dalle chitarre di Wayne Kramer, Fred Sonic Smith e Ron Asheton, per dragare lungo il suo cammino le circolari reiterazioni ritmiche proposte innanzitutto dai fondamentali Velvet Underground poi sviluppate da quella scuola tedesca che trovava in gruppi quali Can, Neu e Kraftwerk i suoi massimi esponenti negli anni ’70, sino a ricongiungersi con i suoni punk della fine di quello stesso decennio, deformando il tutto con una moviola innestata dalla fascinazione per la psichedelica ed alimentata da uno smodato utilizzo di sostanze stupefacenti.
Viene spontaneo dunque domandarsi quanta strada ancora avrebbero potuto percorrere Spacemen 3 se, come sembrava possibile ad un certo punto della loro carriera, avessero deciso di affidare le proprie sorti ad una figura chiave per l’evoluzione del pop britannico dell’ultimo ventennio quale quella di Alan McGee, al tempo boss di una ancor giovane Creation, amico di infanzia di Gillespie ed ammiratore degli stessi Spacemen 3.
Neanche tanto curioso il fatto che la storia, come sempre, finisca con il ripetersi.
Anno di grazia 2003, ancora Detroit, ancora psichedelia, ed il punk rimane attuale, ora come non mai.
Più curiosa la coincidenza capitata a chi scrive: dopo anni di passione per Spacemen 3 ed un periodo altrettanto lungo di oblio destinato a quello stesso gruppo, capita che la prima recensione scritta per la rivista che avete ora in mano sia dedicata all’esordio di Spiritualized, si parla del terzo numero del giornale nel maggio del lontano 1992, ed accade pure nel maggio di undici anni dopo di incontrare nuovamente il passato in territorio londinese, proprio nei giorni della stesura dell’articolo che state leggendo; dapprima sfiorando un concerto solitario di Sonic Boom, e pochi giorni appresso incrociando tra il pubblico di un altro concerto la figura di un invecchiato Pete Bain, che proprio negli Spacemen 3 imbracciò chitarra e basso.
Così la città viene introdotta dalla Knowhere Guide to Rugby.
Poco più di un grosso paese piazzato al centro dell’Inghilterra sulla strada che unisce Londra a Birmingham, Rugby è un piccolo snodo commerciale, un centro di distribuzione da cui transitano molte merci, alcune legali, altre no.
Sono soprattutto le seconde che circolano tra alcuni giovani frequentatori della locale scuola d’arte, luogo da cui i teenager più creativi provano a partire per sganciarsi da un noioso presente, anteprima di un futuro non certamente brillante.
Facile immaginare come la prospettiva di formare e guidare una rock’n’roll band possa essere un attrattiva assai allettante per lo standard di un quattordicenne di provincia.
Proprio a quella età Jason Pierce, studente di incerte speranze, compera una copia di Raw Power, scelta dettata essenzialmente dalla foto di Iggy Pop in copertina, ai suoi occhi vera e propria personificazione del concetto di rock’n’roll.
Quel vinile, acquistato forse casualmente, finirà per essere l’unico a girare sul piatto del suo stereo nel corso di tutto l’anno successivo.
Dall’altra parte della città un ragazzo i cui tratti somatici assomigliano a quelli del tenebroso Rupert Everett, prima di scoprire la discografia di Velvet Underground comincia a trastullarsi con un paio di 45 giri che lo convincono ad acquistare la sua prima chitarra elettrica.
I dischetti sono Denise di Blondie e Jocko Homo di Devo, il ragazzo si chiama Pete Kember, nome che di lì a poco baratterà con l’epico pseudonimo Sonic Boom.
I due, nati lo stesso giorno e lo stesso mese del medesimo anno, novembre 1965, si conoscono proprio nelle aule del Rugby Art College, in breve nasce l’idea di mettere assieme una band con l’ausilio del comune amico Pete Bain.
Assai diverso l’approccio allo stesso strumento sebbene i due provengano da una comune esperienza di auto apprendimento: il modo di suonare la chitarra di Pierce è da subito abbastanza tecnico, molto più grezzo il tocco di Kember il cui modello deriva dal minimalismo selvaggio del crampsiano Brian Gregory.
Proprio la formazione di Poison Ivy e Lux Interior sarà la principale fonte di ispirazione per il primo concerto programmato il giorno di natale del 1982: “Suonammo solo una versione di O.D. Catastrophe lunga 20 minuti.
Erano presenti tutti i nostri amici, tre quarti di loro se ne andarono a metà concerto, quelli che rimasero ci dissero di non essersi mai sentiti presi così tanto in giro in vita loro“.
Stante i ritmi piuttosto lenti della coppia, trascorrono alcuni anni in cui il gruppo si trasforma, attraverso minimi cambi di formazione e concerti dalla cadenza trimestrale, dallo stato di band collegiale a quello di rock band.
Occorre un nome e l’iniziale The Spacemen per quanto adatto pare orientato ad identificarli con l’immagine di una surf rock’n’roll band.
Convincere oggi una neonata congrega di rockettari ad eliminare l’articolo The davanti al proprio nome sarebbe come convincere il Papa che il sesso non è peccato, altri tempi allora: “Odiavo il The davanti al nome,-ricorda Kember-non volevo che la gente ci immaginasse come una band armata di Fender Telecaster e vestita di tute spaziali, così aggiungemmo un 3 rubandolo al poster di un nostro concerto che domandava: i tuoi sogni alla notte sono di 3 taglie troppo grandi?
Il 3 si adattava bene all’interno di un triangolo ed il tondo posto in cima alla piramide ricordava il terzo occhio.
Naturalmente togliemmo il The davanti al nome“.
Sound of Confusion viene registrato in cinque giorni ed è il disco con cui la band entra ufficialmente, a metà 1986, nel mondo della musica rock.
La formazione prevede la presenza di due chitarre affidate a Sonic Boom ed a Jason Pierce, quest’ultimo impegnato anche alla voce, il basso è piazzato tra le mani di Pete Bain già rinominatosi Bassman, mentre dei tamburi si occupa Natty Brooker, primo di una serie di batteristi ad alternarsi in quel ruolo, mai considerato rilevante dal resto della band.
Sono sette canzoni in cui Spacemen 3 raccontano immediatamente tutto quello che attraversa il loro immaginario: storie di giovani che cercano droghe, le utilizzano, muoiono.
Un piccolo documento di ansia giovanile pronta a trasformarsi in panico al momento della crescita. “L’energia che musica e droghe sono capaci di trasmettere è assai simile. Tutte le sostanze che ho sperimentato – eroina, cocaina, amfetamine, marijuana – danno una sensazione piacevole, stesso piacere che possiamo trarre dall’ascolto della musica. Non dico che per ascoltare al meglio i nostri dischi occorra assumere sostanze stupefacenti, anzi è la nostra musica che ti assicura da sola un viaggio“.
Così si esprimeva allora Pete Kember, non c’è spazio per giochi di fantasia dei cronisti, il gruppo mette le carte in tavola in maniera scoperta, vicino ai limiti dell’ingenuità.
Il giudizio morale in materia di droghe lo lasciamo ad altri, certamente la loro chiarezza in materia non ha facilitato la vita ai due leader, così come l’esposizione sempre palese delle influenze sonore è stata a volte tacciata dalla critica come mancanza di idee proprie.
Perchè anche quando non si tratta di eseguire cover dichiarate – ed in Sound of Confusion ve ne sono ben 3 – la coppia finisce con il comporre spesso canzoni che sono comunque la rielaborazione di materiale altrui, tipo una stoogesiana Little Doll tramutata in Hey Man o la Citadel del repertorio stonesiano nascosta tra le note di Losin’ Touch With My Mind.
Basterebbe però prendersi la briga di ripescare una qualunque delle canzoni incluse già in quel disco d’esordio per accorgersi quanto di proprio Spacemen 3 abbiano invece messo per rielaborare le proprie passioni e con quanta onestà non abbiano mai mascherato i propri intenti filologici.
La coppia di ep successivi, Walkin’ With Jesus e Transparent Radiation, definisce ancora meglio la prospettiva.
Un minimalismo che stando alle loro stesse ammissioni si rendeva necessario per l’incapacità dei musicisti nell’infilare troppi accordi uno di seguito all’altro, finisce per divenire paradossalmente un magma chitarristico capace di costruire caotici vortici sonori ripetuti all’inverosimile.
Se rimane valida la definizione di un genio quale quella persona che riesce a far risultare semplice una cosa complicata, nel caso di Spacemen 3 l’assioma andava ribaltato di 180 gradi.
I musicisti suonano sempre seduti a terra su tappeti, abitudine che pare anch’essa riciclata dal passato ma che in realtà viene demistificata dall’ammissione di Sonic Boom: “Non ero praticamente in grado di suonare la chitarra, non conoscevo gli accordi e per me era molto più semplice rimanere a suonare seduto, riuscivo a concentrarmi meglio, questo fin quando non decisi di acquistare una vecchia Vox, aveva una forma tale da rendere impossibile suonarla rimanendo seduto“.
Alla vigilia dell’uscita del secondo album Spacemen 3 si sono costruiti un discreto seguito trasversale tra seguaci dell’indie rock, reduci dell’era hippie e giovani punk in acido.
Ed il loro suono comincia a sua volta ad influenzare nuove band: “Quando uscì il primo singolo di Jesus and Mary Chain, quella stampa che sino ad allora ci aveva ignorato cominciò ad insinuare l’ipotesi che noi li stessimo copiando mentre semmai era vero il contrario visto che noi esistevamo da molto tempo prima. My Bloody Valentine cambiarono progressivamente il loro suono dopo averci conosciuto come spalla ad un nostro tour, per non parlare poi di Loop il cui cantante era un impiegato alla Glass nostro fan ed alla fine ha costruito una band con la sola idea di aggiungere un pò di pop alle nostre idee“, ricorda amaramente Kember.
A poco più di un anno di distanza dal precedente esce il secondo disco.
The Perfect Prescription è un concept che descrive le varie fasi attraversate da un consumatore di droghe, con titoli come portami dall’altra parte, sinfonia dell’estasi, mi sento così bene, e la conclusione che invita alla chiamata di un dottore.
Se le tematiche sono le stesse quello che muta è il tentativo, pienamente riuscito, di affrancarsi dal peso delle influenze altrui pur mantenendo costante il desiderio di rendere omaggio ai maestri.
Difatti se è vero che si avverte ancora la necessità di celebrare un ode alla Street Hassle di Lou Reed, ad emergere è la qualità delle composizioni firmate dalla coppia Kember/Pierce, da cui affiorano melodie costruite con arrangiamenti trance ipnotici sui quali viene inserita una strumentazione molto più varia che in passato, utilizzata a scapito delle percussioni sottratte a buona parte del lavoro.
Assieme e forse più ancora del successivo Playing with Fire, la perfetta prescrizione è il capolavoro dei tre astronauti, con i dieci minuti della spaziale Ecstasy Symphony/Transparent Radiation costruita al sintetizzatore su di un unica nota di organo registrata e poi riproposta su otto piste separate, una di quelle canzoni che da l’impressione di poter durare in eterno girando sempre attorno a se stessa eppur rimanendo capace di non annoiare mai.
Il clima è generalmente rilassato ed affiorano richiami al gospel che saranno in seguito approfonditi, anche se l’inquietudine permane in zona, come dimostrano le versioni di Rollercoaster e Starship registrate in quello stesso periodo ed in seguito incluse nelle ristampe di Perfect Prescription.
Una fusione a freddo di Sun Ra, MC5 e 13th Floor Elevators immersi in una vasca di feedback.
Frattanto al basso Will Carruthers ha sostituito il dimissionario Pete Bain mentre la scelta di separare espressamente i crediti nella scrittura delle canzoni tra Kember e Pierce lascia intravedere la frattura che di lì a poco si consumerà.
La storia finisce mentre le droghe sintetiche stanno per tornare protagoniste sulle piste da ballo; alla vigilia della stagione dell’amore Sonic Boom canta Rock’n’roll is Killing My Life e Jason Pierce sceglie ancora canzoni di altri intonando gospel sulla melodia della troggsiana Anyway That You Want Me.
Di seguito l’elenco dei dischi ufficiali usciti a loro nome durante la vita della band.
Etichetta, data e formato sono quelle della prima stampa:
–Sound of Confusion LP (Glass 06/1986)
–Walkin’ With Jesus EP (Glass 11/1986)
–Transparent Radiation EP (Glass 07/1987)
–The Perfect Prescription LP (Glass 08/1987)
–Take Me to the Other Side EP (Glass 07/1988)
–Performance (live) LP (Glass 07/1988)
–Revolution EP (Fire 11/1988)
–Playing With Fire LP (Fire 02/1989)
–Hypnotized EP (Fire 07/1989)
–Big City EP (Fire 10/1990)
–Recurring LP (Fire 11/1990)
Tra le tante uscite live, raccolte e ristampe una selezione assolutamente arbitraria porta a scegliere i seguenti titoli:
–Dreamweapon (live) LP (Fierce 1990)
registrazione della performance “evening of contemporary sitar music” del 19/08/1988
–Taking Drugs to Make Music to Take Drugs to CD (Bomp 10/1994)
sessioni risalenti al 1986 di canzoni poi comparse nei primi due dischi della band
–For All the Fucked Up Children of the World We GiveYou Spacemen 3 LP (Sympathy for the Records Industry 04/1995) primi demo registrati nel 1984
–Translucent Flashbacks – The Singles CD (Fire 07/1995) raccolta dei primi tre singoli originariamente usciti per Glass
–Forged Prescriptions CD (Space Age Recordings 03/2003) antologia con inediti e versioni demo