C’erano gli anni ’10 che cominciavano, c’era la crisi. La Grecia in fiamme e l’Irlanda al collasso. C’era il disastro di Fukushima. C’erano le rivolte in Egitto e Libia. C’era una nave sdraiata su un fianco, davanti al Giglio. C’era un Papa tedesco che si dimetteva e uno argentino che veniva eletto nel segreto del conclave.

Robyn, LCD Soundsystem, St. Vincent e Lana Del Rey. Deerhunter e Vampire Weekend. Bon Iver, Caribou, Kurt Vile, Arcade Fire e Four Tet. The National, Panda Bear, Tame Impala, Japandroids e Destroyer. Arctic Monkeys e The Strokes.

Vedevi NY per la prima volta, la notte del primo gennaio in Times Square. Ti sentivi in ritardo di almeno dieci anni sui tuoi, ma così era andata la vita e bisognava viverla come veniva, lasciando uscire le paure e facendo entrare forza e caos. Bisognava tatuare ricordi sulla pelle per disegnare la mappa di quello che per tanto tempo non avevi capito e adesso gridava per essere ascoltato.

C’era la voce di Vasco Brondi con le sue luci e le sue ciminiere che cantava i tuoi mal di stomaco.

C’erano gli anni ’10 che filavano via veloci, compressi fra nuove tecnologie che, ogni giorno, promettevano un cambiamento radicale di tutto. C’era la rivoluzione in Ucraina e la Russia che si prendeva la Crimea per ripicca. C’erano pazzi vestiti di nero che sparavano a vignettisti francesi perché ridevano di Maometto. Bruxelles. Orlando. Nizza. Londra. Il safety check di facebook. I controlli rigidi negli aeroporti fra aerei low cost e paura di viaggiare, fra voglia di vivere e paranoia.

Sufjan Stevens, Daft Punk e Beach House. Angel Olsen e Mac DeMarco, Sharon Van Etten e The War on Drugs. Alex G e Parquet Courts.

C’eri tu che correvi da un festival all’altro con quella fame, quella voglia di recuperare tempo perso e solo sognato, che adesso chiedeva di vivere e mangiare e riempirsi di tutto.

C’era Hard Times for Dreamers dei Brothers in Law che riempiva i nostri pomeriggi.

C’erano gli anni ’10 che correvano. Un terremoto che spaccava l’Italia. Un presidente che mai nessuno avrebbe immaginato in America. Uno anche peggiore in Brasile. Bruciava Notre Dame a Parigi. Mi dicevi che Bowie con il suo ultimo disco e l’addio a questo pianeta aveva segnato la fine di un mondo, di una spinta. Sentivi che tutto stava scivolando, che non c’era più energia. Si consumavano i fuochi che avevamo acceso e tutto cominciava a sembrare grigio e freddo.

Finivano gli anni ’10, Car Seat Headrest e king Krule. Si spegneva l’ultima luce della nostra giovinezza e cominciava quella che sembrava la fine del mondo. Quella che fu la fine di un mondo, del nostro mondo pesante ma volatile, del mondo di noi sotto ai palchi, nella calca davanti alla consolle del Covo, dove non c’era più la fila sulle scale al sabato sera. Finiva la Bologna che aveva qualcosa da darci, qualcosa di sempre nuovo e diverso in cui tuffarsi. Sfumava l’ultima possibilità di non essere come tutti, travolti dalla normalità dei marchi globali, dello stile globale, della vita globale, della musica globale. Del va bene tutto, tutto vale, uno vale uno, ma cosa studi a fare, ma cosa ti laurei a fare, ma cosa lavori a fare. Andiamo a vivere fuori che in centro costa troppo, firmiamo quel contratto a tempo indeterminato, anche se ci vien voglia di morire ogni mattina, ma così ci danno il mutuo e la smettiamo di chiedere i soldi a nonna.

Tu non avevi più voglia di niente e dal niente ti sei lasciato rapire. Il mondo per te scompariva e per me diventava un posto monco e sconosciuto.

Finivano gli anni ’10 e per tanti, troppi, moriva la speranza di avere ancora le forze per lottare contro un tempo stupido che faceva della banalità il culmine di tutto. Solo pensieri facili, sentimenti passeggeri, annoiato disimpegno. Tutti uguali a guardare Sanremo perché è una gag e fa ridere, ma poi si sono accorti che potevano fare solo le gag perché le loro vite erano così ammaccate che a guardarle veniva da vomitare. E allora Sanremo è diventato una roba seria e così hanno preso sul serio tutto quello che ci faceva schifo e di cui ridevamo. Sono diventati quello che ci faceva schifo e di cui ridevamo. Aspettare il venerdì sera per correre nel locale con lo smalto sulle unghie a bere drink che costano più di quanto guadagnano in un’ora di un lavoro che odiano, ma non si può stare sempre in casa a guardare Netflix. Postare gli allenamenti in palestra, le calze nuove, la cena, la maglia che casca così bene, la gita la domenica, un piatto di tagliatelle, la pasta fatta in casa; che anche se hai quarant’anni la vita social ti fa sentire meno vecchio. E meno solo. Ti fa sentire come gli altri: in questo naufragio si può sperare solo di stare benino.

Le luci si sono spente sugli anni ’10 con una tempesta che ha lasciato a riva tante macerie e poca voglia di ricostruire. Tu non ci sei più già da qualche anno, io guardo vecchie fotografie e metto sul piatto vinili impolverati. Fuori l’inverno comincia a mordere, ma ci sarà un’altra primavera, altri festival a cui non andrò, altre musiche che non mi riguarderanno più, ma che riempiranno gli occhi a qualcuno come li riempivano a noi, quando ci trovavamo sotto al palco, sulle transenne, sudati e bagnati di birre lanciate in aria e ci veniva da ridere e non pensavamo a nient’altro che alla notte davanti e non sapevamo quello che sarebbe stato. Tu non ci sei più, ma io non ho mai smesso di sperare, di farmi venire il mal di stomaco. Tu non ci sei più, ma se fossi qui, mi diresti che va bene così, che l’importante non è stare benino, è stare forte.

Per Guagno e Ale.

Fabio Rodda

 


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