live 047

1) The Proper Ornaments “Waiting for the Summer”
L’alfabeto estetico conta. In ambito musicale è faccenda fondamentale, altrochè. Una canzone può catturare al primo ascolto, magari, ma è più probabile che quello che colpisca, prima ancora della musica stessa, sia l’immaginario che inevitabilmente un musicista si trascina dietro, consapevolmente o meno.
Ecco, i Proper Ornaments sapevo che mi sarebbero piaciuti già prima di ascoltarne una singola nota. Non immaginavo che ne avrei fatto il mio personalissimo disco dell’anno, ma questo è un dettaglio.
Due tizi, troppo magri, con gli occhiali scuri e delle camice rubate ad un mercatino dell’usato, stivaletti a punta e una faccia che sta lì a raccontare di troppe serate passate ad ascoltare i Velvet e il catalogo della prima Creation.
Del resto lo dicono loro stessi che i Velvet in questa storia hanno avuto un ruolo decisivo: “ci siamo incrociati in un negozio di vestiti usati ed abbiamo iniziato a parlare di Lou Reed”. Così raccontano il primo incontro James Hoare (anche nelle Veronica Falls) e Max Clapps, argentino trapiantato a Londra. I dettagli dicono anche che uno facesse il commesso e l’altro il palo ad una fidanzata cleptomane ma questa forse è già cronaca romanzata e ci interessa il giusto, che è decisamente poco.
Quello che conta alla fine è la collezione di canzoni che sono riusciti a mettere insieme per un album di debutto intitolato “Waiting for the Summer”, che è emblematico fin dal titolo di quell’universo estetico di cui facevamo riferimento all’inizio. Dieci canzoni pressoché perfette, figlie dei Byrds, dei Velvet come si diceva, ma anche del primo album dei Rain Parade. Venate di quella malinconia rassicurante che è in fondo il tratto fondamentale delle migliori canzoni pop in assoluto.
Un disco minore, potrebbe obiettare qualcuno, ma nelle questioni musicali è fondamentalmente inutile valutare utilizzando un approccio colto, scientifico o razionale, qui si parla semplicemente di fede. Nient’altro che fede.

https://soundcloud.com/the-proper-ornaments/you-still
2) Majical Cloudz “Impersonator”
Non ci sono finzioni, non c’é teatro, neppure intrattenimento. Con i Majical Cloudz é tutta una questione di intimità e intensità. Canzoni talmente personali e dirette che ti costringono a guardarti la punta delle scarpe per l’imbarazzo. Minimale anche l’approccio musicale: synth-pop glaciale ma sotto le apparenze si nasconde un cuore in fiamme.
3) Sleaford Mods “Austerity Dogs”
Andate a ripescare l’articolo di qualche settimana fa, pubblicato sempre da queste parti.
4) John Grant “Pale Green Ghosts”
Si potrebbe ripetere quanto scritto per i Majical Cloudz ma qui entra in ballo un elemento nuovo: il sarcasmo. John Grant si è divertito in questo album, siamo sicuri che si sarà fatto qualche amara risata: e ci immaginiamo le facce di quelli che l’avevano già eletto nuovo eroe del rock più tradizionale grazie al disco precedente “Queen of Denmark”. Ed invece si sono ritrovati tra le mani un disco di elettronica dozzinale capace di risultare comunque geniale. John Grant è un gran figlio di puttana, un irresistibile bastardo che ci travolge sotto una valanga di parole e ci regala alcune delle più irresistibili canzoni degli ultimi anni.
5) Parquet Courts “Light Up Gold”
In ogni playlist che si rispetti ci deve essere il momento “Hüsker Dü”.
6) Waxahatchee “Cerulean Salt”
Mi ha ricordato le prime cose di Cat Power….basta e avanza per qualsiasi classifica.
7) Daft Punk “Random Access Memories”
Non c’é niente da aggiungere al diluvio di inchiostro che è stato versato a proposito del nuovo Daft Punk. Io ci ballo sopra a casa, da solo. Prima di loro riusciva a farmelo fare solamente Donna Summer.
8) Savages “Silence Yourself”
Qui bisogna crederci. Loro lo fanno. Chiedono semplicemente un pò di fiducia che proprio non riusciamo a negargli.
9) His Clancyness “Vicious”
Il disco “indie” dell’anno, senza dubbio. Uno di quei rari casi dove il coacervo di influenze riconoscibili si trasforma in qualcosa di inedito, capace di sorprendere ad ogni nuovo ascolto. Clancy ci è sempre piaciuto ma qui ha raggiunto una consapevolezza ed un’ ispirazione che si fatica a ritrovare in qualsiasi disco con le chitarre di quest’anno.
10) My Bloody Valentine “MBV”
Lo aspettavo dal 1991. Mi sembra una ragione sufficiente. Da grande vorrei essere come Kevin Shields!

WE LOVE ITALY
“Move to Italy. I mean it: they know about living in debt; they don’t care. I stayed out there for five months while I was making a film called ‘Order Of Death,’ and they’ve really got it sussed. Nice cars. Sharp suits. Great food. Stroll into work at 10. Lunch from 12 till three. Leave work at five. That’s living!” (John Lydon)

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Vorrei solamente sottolineare quanti dischi importanti, belli, dal respiro assolutamente internazionale sono stati prodotti in Italia quest’anno. E ve lo dice il più esterofilo degli appassionati di musica in circolazione. Ad iniziare dall’album di Theo Teardo e Blixa Bargeld (Still Smiling) che è un piccolo capolavoro dai tratti esilaranti e dal dosaggio perfetto di rumori, melodie e canzoni. Bello anche il nuovo Porcelain Raft (Permanent Signal). Un capitolo a parte merita His Clancyness (Vicious) e più sopra ho appena spiegato il motivo. Ottimo anche il lavoro dei Brothers in Law (Hard Times For Dreamers) che piazzano (Lose Control) una delle mie canzoni preferite dell’intera annata. Una certezza i Massimo Volume (Aspettando i barbari) e più che convincente anche il disco dei Santo Niente di Umberto Palazzo (Mare Tranquillitatis). Maria Callas è una delle canzoni italiane più belle che mi sono capitate tra le mani ultimamente. Sorprendente infine il nuovo Julie’s Haircut (Ashram Equinox), disco senza limiti di linguaggio e costrizioni. Semplicemente oltre.
Cesare Lorenzi


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