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Life Without Buildings

Una cosa che mi ha sempre divertito è osservare quei personalissimi processi mentali che periodicamente – invero piuttosto spesso – fissano la mia attenzione su specifiche faccende legate al mondo della musica unendo eventi e persone secondo traiettorie che agli occhi di uno spettatore esterno potrebbero apparire del tutto gratuite.
Occupandomi più o meno da 35 anni di dischi e canzoni, per diletto prima ancora che per lavoro (molto prima, perché in effetti il lavoro che mi paga le bollette nulla ha a che vedere con la musica), ho accumulato nel mio subconscio una mole tale di dati e situazioni che nel quotidiano capita spesso si mettano in moto meccanismi di rimando a situazioni già vissute fornendo spunti per collegamenti che poi a raffica dilagano tra i pensieri.
Vedere da quale punto esatto si staccano improvvisamente queste schegge di memoria e seguire le parabole attraverso cui le stesse vanno a conficcarsi nel presente, può considerarsi una sorta di cartina tornasole dell’evoluzione (o mancata evoluzione) del mio gusto e a volte può diventare anche occasione per avviare un (blando) processo di auto analisi.
Se agganciare il ricordo di un passaggio dei This Mortal Coil ad un vocalizzo di Zola Jesus è questione in certo senso abbastanza ovvia così come può esserlo sovrapporre un giro di chitarra dei Proper Ornaments a quello ascoltato in una delle prime canzoni dei Primal Scream, intravedere il profilo ispido e rotondo del cantante dei Fucked Up riflesso sulla lucida buccia rossa di una ciliegia appare senz’altro una storia un pelo più complicata da decifrare (questa ve la spiego qui*).
Fatto sta che ogni giorno mi capitano episodi di questo tipo in un rutilante dai e vai di rimandi che fornirebbero ad uno scrittore più in gamba del sottoscritto materiale per scriverci almeno un paio di libri i quali, va da se, interesserebbero poi nessun altro se non il loro stesso autore.

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Life Without Buildings

Qualche giorno fa ad esempio mi è capitata sotto gli occhi una recensione di Any Other City, primo ed unico disco degli scozzesi Life Without Buildings in origine pubblicato da Rough Trade nel 2001 e ristampato dai sempre benemeriti tipi di What’s Your Rupture? in occasione del Record Store Day di quest’anno.8594a427
I Life Without Buildings mi piacevano parecchio (del resto i gruppi nati a Glasgow sono da sempre stati una mia esplicita passione) ed ho acquistato ai tempi (2000/2001) tutti i loro dischi (tre ep e l’album di cui sopra), tralasciando solo il live pubblicato nel 2007, diversi anni dopo il loro scioglimento.
Anche dalle parti di Pitchfork i Life Without Buidings li devono apprezzare un bel po’: la ristampa dell’album in studio si è aggiudicato un più che lusinghiero 8.7 ed in precedenza quello stesso disco era stato inserito dallo staff editoriale della web zine nella top 200 degli lp fondamentali usciti negli anni zero (centoventottesimo posto per la cronaca) mentre The Leanover (lato a del primo singolo) venne a sua volta piazzata nella top cinquecento delle migliori canzoni di quel decennio (posizione numero centocinquantadue, sempre per la cronaca).

I Life Without Buildings erano studenti d’arte e art rock – sfruttando una delle tante definizioni paracule cui noi sedicenti giornalisti musicali spesso ci aggrappiamo – potrebbe definirsi la loro musica. Uno di quei neologismi rock adatti per descrivere qualunque cosa abbia a che vedere con gente tipo Fall e Wire. Roba buona insomma.
Il nome lo presero da una canzone dei Japan (stava sul lato b del singolo The Art of Parties) e già questo mi parve da subito un esercizio di stile da tenere in debito conto, mentre il loro core business era centrato indubbiamente sulla voce della cantante, Sue Tompkins, ultima aggiunta ad un gruppo che era partito da presupposti esclusivamente strumentali col preciso scopo di emulare gli idoli d’oltre oceano Don Caballero.
Sue Tompkins, artista e pittrice, era tutto fuorché una cantante, ma il modo in cui decise di affrontare il compito che le assegnarono diventò poi un marchio di fabbrica unico: una specie di spoken word a tratti incomprensibile, narrato da una bimba che ha in memoria la voce di Kate Bush e quella ascoltata una volta nei dischi dei Sugarcubes, che ripete all’infinito una serie di frasi con la stessa convinzione con cui un adulto declamerebbe i versi di un poema mentre nelle orecchie le girano in loop canzoni di Raincoats e Slits.
Questa prassi vocale sostanzialmente circolare, come se le parole fossero strumenti di un qualche gruppo kraut dei 70’s, combinato ad un approccio strumentale tarato su progressioni geometriche vagamente prese a prestito dal post rock, generava una specie di corto circuito straniante e bellissimo.

Se stessi parlando e non avessi dunque la possibilità tramite la rilettura di fare il punto su quanto sin qui detto, confesso che ora avrei perso il senso del discorso che viceversa ero inizialmente intenzionato a portare avanti.
E in effetti poi il punto che volevo trattare era proprio questo: l’accavallarsi di ricordi, idee e situazioni generatrici di sinapsi che si frantumano a ventaglio in tante diverse direzioni.

Nello specifico quando l’altra mattina mi sono imbattuto nella recensione di Pitchfork la scheggia che è schizzata via aveva sopra un nome, un luogo ed una data precisi: Grandaddy, Cambridge, 6 febbraio 2001.
In quel periodo i Grandaddy erano uno dei miei gruppi preferiti e il tour di supporto al loro nuovo album, The Sophtware Slump, prevedeva un’unica data in Italia, alla vecchia sede del Link di Bologna in via Fioravanti. Praticamente dietro casa mia. Quella data saltò e stante il fatto che i Grandaddy non sarebbero venuti da noi con Fabio e Flavia decidemmo di andare noi da loro. Il 6 febbraio del 2001 era un martedì e i Grandaddy avrebbero suonato allo Junction di Cambridge. Prendemmo un volo Ryan Air, una microscopica stanza in un piccolo albergo vicino la stazione della città e passammo un paio di giorni in Inghilterra. Le sere a nostra disposizione erano due. La prima, appunto il 6 di febbraio era già opzionata dal concerto per il quale eravamo partiti da Bologna quella stessa mattina, la seconda era libera. Scorrendo l’elenco dei concerti l’unica cosa interessante in programma il 7 febbraio era una data londinese dei Life Without Buildings. Suonavano al Barfly, di spalla avevano un nuovo gruppo americano che sbarcava in Inghilterra per la prima volta. Qualcuno ne aveva già iniziato a parlare ma il loro primo singolo, un ep contenente tre canzoni, sarebbe uscito proprio quel giorno.
Venni poi a sapere che all’ultimo momento era stato deciso di invertire i ruoli piazzando il gruppo spalla quale attrazione principale della serata: gli americani headliner, i Life Without Buildings di spalla.
Gli organizzatori ci videro evidentemente lungo, noi no.
Con la precisa sensazione che stavamo facendo una cazzata decidemmo infatti di rimanere a Cambridge, devolvendo il budget del concerto londinese per una cena a base di cibo indiano. Poi andammo a smaltire il tandoori chicken a botte di coca cola seduti sulle panchine sotto la pensilina della stazione, guardando come precoci pensionati i treni che passavano sfrecciando sul primo binario.
La mattina dopo prima di salire sull’aereo feci un salto all’HMV di Cambridge e comperai un paio di dischi. Uno era un 45 giri degli Starsailor, l’altro era il primo ep degli Strokes, il gruppo di New York che aveva scippato il ruolo di headliner ai Life Without Buildings la sera prima a Londra. C’erano tre canzoni in quel disco: The Modern Age (velocizzata rispetto alla versione che sarebbe poi apparsa sul primo album), Last Nite (probabilmente il più fortunato pezzo rock da dancefloor degli ultimi quindici anni) e Barely Legal.
Quando arrivai a casa la sera ascoltai quell’ep e mi fu subito chiaro che la sensazione del giorno prima non era per nulla sbagliata: avevamo fatto una cazzata.
Per espiare la colpa giusto un anno dopo Fabio, la Flavia ed io caricammo altri 4 amici su un van da sette e partimmo per Praga. L’8 marzo del 2002 in un piccolo teatro della città suonavano gli Strokes.
Era il tour di Is This It, il loro primo album.

*I Fucked Up, gruppo hardcore di Toronto, in barba a quelli che dividono rigidamente la musica in buona e cattiva a seconda del genere o peggio ancora della provenienza geografica, nel corso della loro brillante carriera hanno pubblicato una cover di Anorak City degli Another Sunny Day ed un intero ep di tributo alle Shop Assistants contenente due versioni di I Don’t Wanna Be Friends With You ed altrettante di Looking Back.
Una coppia di ciliegie rosse erano invece il simbolo della Sarah Records, etichetta feticcio dell’indie pop britannico.

Arturo Compagnoni


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