Da qualche tempo Pitchfork ha deciso di uscire sul mercato in formato cartaceo. Il sito web che ha nella sostanza modificato il nostro recente modo di vivere le notizie e la critica legati alla musica che più ci piace, ha sorpreso tutti in questo 2014 lanciandosi in un’avventura editoriale inattesa. Qui non si vogliono dare giudizi di merito né sul sito (che comunque sarebbero positivi) né sulla rivista in sé (che è a mio giudizio riuscitissima). Dopo 17 anni di vita online è come se si volesse prendere le distanze da quello che si è contribuito a creare o quantomeno trasformarlo in qualcosa di nuovo. Hanno probabilmente compreso che ancora l’unica maniera per approfondire qualsiasi discorso legato alla musica non può prescindere dalla carta stampata.

L’elegante primo numero (ne pubblicheranno 4 all’anno) è un libro più che un magazine che vuole, fin dal formato, mettere in chiaro che le parole e i contenuti dovranno occupare la scena. Una grafica all’insegna del understatement che rovescia in maniera radicale quello che è stato il lavoro di web designer (si dirà così poi, mah) e grafici di riviste musicali varie negli ultimi anni. L’esperimento va seguito con attenzione, naturalmente.

Non è mia intenzione affrontare nel dettaglio gli argomenti di cui si occupa The Pitchfork Review ma l’articolo posizionato in apertura ha catturato la mia attenzione. La firma è quella di Simon Reynolds, inglese trapiantato a New York, autore di libri di successo come Retromania e Rip It Up and Start Again ma sopratutto giornalista di punta per il Melody Maker per quasi 20 anni.

Reynolds, cerco di riassumere in poche parole, analizza la storia della stampa musicale britannica, dell’impatto incredibile che i settimanali avevano all’epoca (diciamo dal 1975 al 2000) e di come e quanto si sia evoluto (o involuto), grazie ad internet, il modo di parlare e scrivere di musica in maniera quantomeno consapevole.

Sottolinea in modo decisamente critico l’attuale situazione: l’uscita di qualsiasi disco provoca nel giro di poche ore una valanga di decine di opinioni. Giudizi che solitamente si muovono a 360 gradi, dall’ entusiasmo alla stroncatura più feroce. Il risultato é che nessuno legge più veramente se non in maniera estremamente distratta. Si sa già in anticipo cosa aspettarsi, del resto. E di qualsiasi disco, con un minimo di ricerca, è possibile individuare la recensione che più si avvicina ai propri gusti musicali. Si genera insomma un grande rumore di sottofondo ma nessuno ha ormai l’autorità di elevarsi da questo mare di mediocrità.

Il problema non è solo del pubblico, aggiunge Reynolds, ma anche dei critici stessi. Se prima scrivere una recensione comportava in qualche modo una responsabilità ora non é più così. In qualsiasi caso sarà sotterrata da decine di opinioni simili e contrarie nel giro di poche ore. Tutto questo meccanismo, legato a doppia mandata al fatto di poter ascoltare gratuitamente e in tempo reale tutta la musica del mondo, ha generato un ulteriore problema. Non solo la lettura é diventata più superficiale ma anche l’ascolto e il rapporto che abbiamo con le band o con la musica che più ci piace é completamente cambiato. Non si vivono più grandi storie d’amore ma piccole avventure da fine settimana, per azzardare una metafora.pitchfork

L’articolo di Reynolds è brillante e il mio tentativo di riassumerlo in poche parole non gli rende giustizia. In alcuni passaggi mi ci sono ritrovato: quando racconta la corsa del martedì a recuperare la nuova copia del NME mi ha fatto ricordare i miei mercoledì mattina (7 giorni di ritardo sull’uscita inglese) dove puntualmente in via Mazzini, circondato dai pensionati e casalinghe che si recavano alle poste, andavo a ritirare la mia preziosissima copia del Melody Maker. Proprio questo dettaglio mi ha fatto ricordare un articolo che avevo letto da qualche parte. Ho fatto mente locale e mi é tornato in mente il vecchio blog di Arturo Compagnoni, che altro non è stato se non il progenitore del sito che state leggendo in questo momento. Ve lo ripropongo perché merita e sopratutto perché ci permetterà di fare qualche altra considerazione:

Oggi tornando a casa dal lavoro me la sono presa comoda.
Anziché infilare la rampa della tangenziale a Borgo Panigale, ho proseguito dritto lungo l’asse attrezzato, sbucando sui viali poco prima di Porta San Felice, proseguendo poi in circolo verso il ponte di via Stalingrado.
Così facendo sono passato davanti alla stazione dei treni e proprio mentre ero fermo al semaforo piantato poco prima la tabaccheria A.B., quella delle prevendite, ricordavo.
Non tanto quel 2 agosto, la vecchia radio Grundig posata sotto l’ombrellone che stava trasmettendo l’hit parade della RAI a quei tempi, 1980, un piccolo evento mediatico per un adolescente precocemente infatuato dalla musica e da quello che alla musica ruota attorno.
No, non è stato tanto quello a venirmi in mente.
Che a quello penso ogni volta mi capiti l’occhio sull’orologio sospeso in alto a sinistra, appeso al muro della stazione.
Immaginandolo sempre immobile sulle dieci e venticinque della mattina.
Rammentavo piuttosto le tante sgambate del mercoledì, diretto all’edicola, quella che ai tempi era piazzata di fronte all’ingresso, proprio sotto l’enorme tabellone nero dei treni in partenza ed in arrivo.
Era a quell’edicola che per primo arrivava il Melody Maker, ed era dunque da quell’edicola che si avviava settimanalmente il processo di conoscenza. Rozzo, basilare, fatto di dieci nomi a settimana da appuntare sull’agenda in un ordine via via più confuso.
Fatto di quarantacinque giri che sarebbe comunque stato impossibile procurarsi ed elenchi di concerti londinesi e favolosi in posti che avremmo poi testato negli anni a venire essere poco più che pub sgangherati.

Prima ancora che il semaforo girasse al verde pensavo, come spesso mi capita, a come le cose siano cambiate in un lasso di tempo tutto sommato poco rilevante.
A quanto comoda e raggiungibile sia oggi l’informazione, diffusa attraverso tecnologia a (relativamente) basso prezzo, e al contempo quanto poco rimanga di questa immensa massa di dati, notizie, pareri e riflessioni variamente assortite che ogni giorno si affastellano sugli scaffali della nostra memoria sempre più sovraccarica.
Quasi quanto l’hard disk del computer dal quale sto scrivendo ora.
E dunque a quanto inutile sia questa enorme quantità di informazioni.
Anzi a volte persino controproducente.
A meno che queste informazioni non si decida di elaborarle e trasformarle in conoscenza.
Intendiamoci, non è che il Melody Maker e la sua carta ruvida, di quelle con l’inchiostro che rimaneva appiccicato al polpastrello delle dita, potesse essere considerato uno strumento di cultura.
Anche se certi articoli del vecchio Everett True hanno concorso in maniera inconfutabile a forgiare parte del mio gusto.
E’ che il piacere di leggere e rileggere parole scritte su carta, sin quasi a mandarle a memoria, rimane per me unico, ora come allora.
E la parola scritta sulla carta rimane ancora, almeno a livello psicologico, una fonte di sapere più solida, un qualcosa a cui prestare attenzione maggiore.
Quello che è andato perduto e mai più sarà ritrovato è il successivo fascino delle ricerca che quelle pagine stimolavano (e tuttora sollecitano), irrimediabilmente smarrito dentro migliaia di cartelle condivise dagli utenti di un soul seek qualunque.
E poco dopo, mentre svoltavo a sinistra, sbirciando il portone colorato e decrepito che annuncia da lontano l’ingresso al Livello 57, pensavo a quanto assoluta, totale e granitica sia la convinzione che l’informazione sia cosa ben diversa dalla conoscenza e che se l’informazione totale ed immediata è oggi alla portata di tutti, non altrettanto lo è la conoscenza.
Quella la si acquisisce negli anni, e bisogna averne voglia, perché non basta avere una connessione veloce e tempo da investire in viaggio tra un link e l’altro.
Perché la conoscenza sta sempre là fuori.
E bisogna alzarsi e muoversi e faticare e resistere per accumularla.
(Artuto Compagnoni, dalla prima versione di Sniffin’ Glucose, ottobre 2007)

the-stone-roses-on-the-cover-of-melody-maker-9th-december-1989Quello che scrive oggi Reynolds, Arturo lo aveva semplicemente anticipato di qualche anno. Utilizzando un’altra forma naturalmente ma arrivando, seppur in tempi diversi, ad esporre concetti molto simili.

Non che tutto ciò abbia un significato particolare. È solo un fatto.

Certamente The Pitchfork Review concorrerà all’evoluzione del cartaceo che tratta di musica in maniera si spera rilevante. Qualcuno lo ha già detto e scritto, le vecchie riviste musicali rischiano di diventare cool quanto il vinile, destinate però sempre più ad un pubblico di nicchia. Disposto magari a pagare qualcosa in più per avere edizioni lussuose e approfondimenti. Tutto il resto finirà in rete, inevitabilmente.

Questa combinazione rete/cartaceo, come proposta dai tizi di Pitchfork (ripeto: al di là di quello che se ne pensi in proposito) rischia di diventare un primo passo verso qualcosa che non si era ancora visto.

Recensioni, news, ascolti multimediali che per forza di cose finiranno on-line. Tutto il resto, per chi vorrà, in un magazine di iper-approfondimento. Considerando che le riviste specializzate del nostro paese sono ancorate ad un formato che ormai ha oltre vent’anni (quantomeno) di vita sarà interessante vedere chi riuscirà per primo a capire come muoversi e sopratutto in quale direzione.

Intanto i mensili italiani malinconicamente chiudono uno dopo l’altro. Novità non se ne vedono (ok, il sito e l’attività social di Rumore possono essere considerati un piccolissimo passo verso la modernità che arriva però con almeno due lustri di ritardo). L’impressione é che si sia messo in moto un meccanismo che trasformerà in maniera rilevante il nostro modo di raccogliere informazioni e leggere di musica. Purtroppo di qualsiasi cambiamento o rivoluzione si possa trattare non si vede proprio all’orizzonte qualcuno pronto a cavalcare l’onda. Piuttosto toccherà ancora una volta subire: in maniera provinciale, come é nostro destino.

Una precisazione a questo punto: la stampa musicale mi sta a cuore. Ho passato 10 anni straordinari in redazione a Rumore finché ho deciso che ne avevo avuto abbastanza. Ma i contatti sono rimasti, alcune amicizie pure. Non ho nessuna intenzione di partecipare alla sagra dei picconatori di professione, quindi. Anzi, a dirla tutta, molte delle opinioni qualunquistiche, irrispettose di professionalità forgiate da anni di militanza, che si sono viste spuntare come funghi in tempi più o meno recenti tra blog e social mi risultano veramente insopportabili. Il meccanismo è mutuato dalla politica, il che è tutto dire. Si martella, si distrugge, si spara ad alzo zero. Leoni da tastiera che però a muovere il culo per vedere un concerto manco parlarne.

Gente che vomita giudizi definitivi per poi, alla prima proposta di una di quelle riviste tanto vituperate, fare il salto dall’altra parte. Improvvisamente giornalista musicale e non più blogger d’assalto con la verità in tasca da sventolare sul web. Che tristezza.

Quello che però va senz’altro sottolineato, parlando di stampa musicale, è la mancanza di coraggio. Si è rimasti ancorati ad un formato e ad una struttura pressochè identica da oltre trent’anni. Non c’è stato ricambio generazionale, inoltre. E sì che in questo momento di rivoluzione del mercato discografico davvero si potrebbe azzardare un nuovo formato. Intanto concentrandosi sulle straordinarie storie musicali che ha regalato il nostro paese negli ultimi tempi.

Non vorrei aprire uno spazio dedicato di consigli non richiesti ma è possibile che Pitchfork, ma anche Mojo, oppure Uncut, quando si tratta di fare approfondimento vero lo facciano in una maniera che a noi risulta impossibile. Leggevo una recente intervista a Mac De Marco, per esempio. Fatta in tre periodi temporali differenti. In studio di registrazione, a casa sua ed infine il giorno della pubblicazione dell’album. Poi uno mi chiede ancora perché dovrei leggere la stampa straniera? Perché non possiamo farlo noi? Non dico all’estero ma con i Massimo Volume, Julie’s Haircut, Teho Teardo o con His Clancyness (e sono solo i primi nomi che mi vengono in mente), per dire? Cos’altro abbiamo di meglio da fare? Stare tutto il giorno attaccati a facebook a sparare minchiate? Ecco, da lettore mi piacerebbe proprio vedere robe così, scritte da gente che muove il culo e sta sul pezzo, in occasioni diverse, magari facendoci qualche ragionamento attorno. Roba che valga la pena leggere, in definitiva, che ti offra almeno qualcosa in più delle banalità da comunicato stampa. O magari, visto che il web si è iniziato ad utilizzarlo, trovare una via più creativa che non limitarsi a riprendere le news delle case discografiche che abbiamo già letto ore prima da qualche altra parte.

Alla fin fine si torna a quello che scriveva Arturo Compagnoni un bel po’ di tempo fa: la conoscenza sta sempre là fuori, bisogna alzarsi e muoversi e faticare e resistere per accumularla.

Altre strade non ne conosciamo e le scorciatoie spesso ti fanno sbattere la faccia contro il muro.

Cesare Lorenzi


Una replica a “The scene that celebrates itself”

  1. Avatar Top Five(r) 2014 | SNIFFIN' GLUCOSE

    […] 4) The scene that celebrates itself (di Cesare Lorenzi, 22 aprile 2014) Poi uno mi chiede ancora perché dovrei leggere la stampa straniera? Perché non possiamo farlo noi? Non dico all’estero ma con i Massimo Volume, Julie’s Haircut, Teho Teardo o con His Clancyness (e sono solo i primi nomi che mi vengono in mente), per dire? Cos’altro abbiamo di meglio da fare? Stare tutto il giorno attaccati a facebook a sparare minchiate? Ecco, da lettore mi piacerebbe proprio vedere robe così, scritte da gente che muove il culo e sta sul pezzo, in occasioni diverse, magari facendoci qualche ragionamento attorno. Roba che valga la pena leggere, in definitiva, che ti offra almeno qualcosa in più delle banalità da comunicato stampa. O magari, visto che il web si è iniziato ad utilizzarlo, trovare una via più creativa che non limitarsi a riprendere le news delle case discografiche che abbiamo già letto ore prima da qualche altra parte……continua […]

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