Own Boo
Own Boo

É un’estate che é partita come meglio non si poteva. Lo avete letto: tra Beaches Brew e Handmade siamo stati bene. Cosí bene che ci sembra quasi impossibile. Essere qui, a pochi km di macchina, a pochi minuti di distanza da quelle serate, dai nostri amici, dalla nostra musica. E siamo solo all’inizio. Intanto segnatevi queste date: 4 e 5 luglio. Sotto la tettoia dell’Hana-Bi ci saremo anche noi in compagnia di qualche amico, a smanettare con il mixer e mettere qualche disco ma, sopratutto, a veder suonare dal vivo Soviet Soviet, His Clancyness, Own Boo e Havah. Vale a dire il meglio o quasi che gira in Italia in questi giorni. Sará il tempo di Ceremony, un festivalino che diventerá un evento, ne siamo certi.

Intanto, come ogni lunedí, le nostre 5 canzoni della settimana….

Own Boo “Edie”

Di una band come Own Boo mi piace praticamente tutto. Ad iniziare dalle foto promozionali che circolano in rete. Mi ricordano i My Bloody Valentine quando ancora si facevano ritrarre negli appartamenti che occupavano nel nord di Londra e pubblicavano EP di un fascino che rimarrá ineguagliato. O forse é solo suggestione causata dai suoni: chitarre distorte e fascinazioni psichedeliche. Un EP di quattro canzoni che é anche debutto discografico, un gioiellino che rimanda a band come i primissimi MBV e i Telescopes. La mia nuova band italiana preferita degli ultimi 12 mesi, senza ombra di dubbio.

Chad VanGaalen “Cut off My Hands”

Un brano, uno qualsiasi di un disco strepitoso. Un pretesto per parlare non tanto della canzone in sé (comunque adorabile: si apre con una semplice chitarra alla quale faranno poi da contraltare una serie di arrangiamenti bizzarri che rendono alla perfezione l’atmosfera evocata anche con il cantato….close my eyes and dream of different skies…) ma per segnalarvi  appunto un disco che sta raccogliendo recensioni entusiaste un pó ovunque ma che rischia comunque di passare sotto silenzio. Se ci fosse un pó di giustizia ci toglieremmo definitivamente dalle balle Wayne Coyne per lasciar spazio a roba come questa: che dei Flaming Lips raccoglie la visione ma la coniuga con la tradizione del folk a stelle e strisce.

Conor Oberst “Your are Your Mother’s Child”

A proposito dei Bright Eyes di Conor Oberst prima o poi mi toccherá scriverci qualcosa di serio, una di quelle cose che ogni tanto vi propongo alla voce “band della vita”. Peccato che i dischi solisti non siano mai stati all’altezza, arrivando addirittura ad indisporre in quel pedante tentativo di imboccare le strade del “classic rock”. In attesa che decida di ritornare a casa nutriamo la nostra fiducia di piccoli episodi che comunque continuano a sottolineare la straordinarietá del personaggio. Non é un caso che uno dei brani che rimangono del disco piú recente sia completamente acustico, una canzone che rischia di farvi tirare fuori il fazzoletto dalla tasca. Lo odierete per questo, allo stesso modo di quando vi commuovete guardando Titanic in televisione e odiate voi stessi.

Parquet Courts “Black and White”

La New York di fine anni ’70, i Pavement, i Modest Mouse……. i Parquet Courts. E pensare che il nuovo disco mi ha lasciato completamente spiazzato all’inizio. Perché non é un disco immediato, proprio per nulla. Ha bisogno, al contrario, di qualche ascolto ripetuto ma una volta che ci si prende confidenza diventa assolutamente indispensabile. Ho sempre avuto una visione in testa. La band perfetta: due chitarre, basso e batteria, l’urgenza degli Husker Du coniugata al talento compositivo di Bob Dylan. Sará pure una mezza chimera ma ogni tanto continuo a crederci. I Parquet Courts alimentano semplicemente  il sogno.

Total Control “Flesh War”

Santino dei New Order alla parete, assalto di synth a fare da colonna sonora. Ritmi che portano alla mente le vicende del post-punk dei primi anni ottanta. Passaporto australiano e secondo album in uscita a giorni. “Flesh War” é un estratto del disco in questione, ne hanno parlato i tizi di Pitchfork e ancora una volta sembrano aver ragione. Questa é una canzone che possiede l’epicitá ed il mistero per trasformarsi in un piccolo inno. Gran pezzo.

CESARE LORENZI


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