
Sono convinto che ognuno di noi abbia un talento particolare e che talvolta le vicende della vita non ce lo lascino coltivare come meriterebbe. Talvolta ci si perde in piccole rivincite personali, in litigi senza senso, in labirinti emozionali senza via d’uscita.
Poi, come d’improvviso, si torna a fare quello che riesce meglio. Magari a distanza di anni.
Suonare canzoni con il piglio del punk, nel caso di Bob Mould. E farlo con quella naturalezza che solo il talento, la predisposizione, gli astri e non so cos’ altro ci mettono a disposizione.
Certo che tra Bob Mould e il suo ex compare di avventure negli Husker Du, Grant Hart, diventa una bella gara di occasioni sprecate, talento inespresso e capacità di complicarsi l’esistenza. Come se Ryan Giggs avesse un giorno deciso di lasciare la sua amata fascia sinistra per giocare difensore centrale. Probabilmente lo avrebbe fatto senza particolari problemi, lavorando un pò sui muscoli e la forza fisica. Ma non sarebbe più stato “quel” Ryan Giggs. Ricordo ancora un pomeriggio del 1999, seduto sui gradoni di un pub del centro di Manchester. In compagnia di due greci emigrati in Inghilterra che scroccavano birre e sigarette. Stasera vi farà del male, mi avvertirino. Finì 2 a 0 per loro, la squadra di Manchester con le magliette rosse, in effetti. Vidi dal vivo cosa significava cavalcare quella fascia sinistra. Quella sera Ryan Giggs piazzò l’asticella. Chiunque volesse provarci poteva accomodarsi ma sapeva che il salto da fare era enorme e la ricaduta poteva fare male.

Bob Mould qualche anno prima piazzò l’asticella per chiunque volesse cimentarsi in una canzone suonata con 3 accordi, con l’energia di un areoplano al momento del decollo che usciva dagli amplificatori e la bile che a forza di urlare finiva direttamente nel microfono.
Gli Husker Du sono diventati velocemente leggenda, con tutte le contraddizioni tipiche del caso. Sono stati una storia intensa, una di quelle che lascia cicatrici e fa male. Comprensibile insomma che tutta la carriera solista, o comunque post Husker Du di Bob Mould sia vissuta nel tentativo di ricostruirsi un’immagine pubblica ed un futuro che si allontanasse il più possibile da quello che era stato.
Emblematico il disco solista, il primo della serie. Quel Workbook che è stato oggetto di ristampa proprio in questi giorni per i 25 anni dalla pubblicazione. . Disco acustico, di archi e di arrangiamenti sorprendenti. Come se volesse dirci che insomma vanno bene i Black Flag e i Minutemen ma, sotto sotto, il chitarrista che più lo ha influenzato è stato Richard Thompson. Una di quelle cose che da punk non potevi proprio ammettere. Ma l’eccesso di questa nuova libertà, al di là dell’entusiasmo iniziale, non ha mai prodotto capolavori. Tutto al più buone canzoni che, sì, insomma non sono veramente male ma però, dai, gli Husker Du erano decisamente un’altra cosa.
Anche gli Sugar, l’altro progetto di Mould rimasto a metà strada tra il periodo Husker Du e la carriera solista, nonostante il successo in termini prettamente commerciali, si può catalogare come tentativo di coniugare il vecchio linguaggio del punk rock a suoni tradizionalmente più rock. Senza punk. Con un gusto melodico mai così accennato. Roba che ci ha fatto pogare come se fosse la fine del mondo: canzoni che sono rimaste, anche quelle indelebili nella memoria. Ma anche gli Sugar alla fine li abbiamo sempre registrati come un eccellente rito di passaggio. Tra una vita e l’altra, come direbbe il Compagnoni.
Passaggio che sembra essersi completato con gli ultimi due album solisti. Bob Mould è tornato definitivamente a casa e sentirlo al massimo dei giri, nel più recente “Beauty & Ruin” è un vero piacere.
Quelle canzoni che abbiamo mandato a memoria in “anni importanti” assumono ora una valenza profetica. Mi ricordo bene l’ultimo periodo degli Husker Du: come i confini si fossero fatti improvvisamente troppo stretti. Si capiva che quella storia era alle battute finali e quella strada che portava alla rinuncia sembrava un incubo (ai nostri occhi di fan poco piú che adolescenti) che si materializzava. Il momento della disillusione, quando tutto sembra improvvisamente senza senso, il guardarsi intorno e non vedere appigli. Quel diventare grandi che ti stritola lo stomaco e non ti lascia spazio, il respiro diventa affanno….it makes you want to give it up, And drift into a haze….
Non è piazzata lì per caso neppure quella foto di copertina: dove un Bob Mould maturo si sovrappone ad un ritratto di tanti anni fa. Come se le due epoche venissero improvvisamente a patti, come se si fosse davvero completato un ciclo.
In fondo il talento è uno solo. Quello vero. In questo caso lo conosciamo fin troppo bene….once you’ve seen the light, you finally realize it might end up all right, it might end up all right now…
Tanto poi siamo quello che siamo e alla fine sempre lì torniamo, da dove siamo venuti. Magari non sarà strettamente la stessa cosa, non sará una faccenda calligrafica perchè ci abbiamo vissuto una vita in mezzo, ma insomma ci siamo capiti.
CESARE LORENZI