
Dicono che questi siano i migliori mondiali di calcio di tutti i tempi. Può darsi sia anche vero, chissà. Secondo me in ogni caso non si possono confrontare cose che appartengono a epoche diverse. Non so, magari i mondiali del Messico nell’estate del 1970 sono stati più belli, solo che non lo ricordiamo e comunque i parametri per giudicare certe cose sono completamente cambiati. In ogni caso credo sia impossibile vedere qualcosa di meglio delle due partite in Spagna in cui l’Italia batté in sequenza Argentina e Brasile nell’82.
Per la musica è diverso. Certi dischi di altre epoche restano e li giudichiamo oggi con gli stessi criteri di allora. Tra quelli che piacciono a me penso agli Stones, ai Velvet, agli Stooges, ai Roxy Music, ai Kinks solo a dire i primi nomi che mi vengono in mente.
Riflettendoci un attimo credo dipenda dal fatto che il calcio si è evoluto moltissimo negli anni, mentre la musica rock è rimasta – al contrario – sostanzialmente ferma: detto questo aggiungo che, per come la vedo io, l’evoluzione non è necessariamente un bene e il rimanere fermi, in certi casi, non è affatto un male.
Ought “The Weather Song”
Questa canzone mi gira in testa incessantemente da almeno un paio di mesi. L’ho ascoltata talmente tante volte che mi pare, nella consueta confusione tra accadimenti personali e pubblici, tutti la conoscano benissimo. Quasi come gli Ought fossero i cesarecremonini del Canada. In realtà quando l’altra sera l’ho suonata all’Hana Bi dopo il concerto dei Pains of Being Pure at Heart, la gente sotto la tettoia è rimasta un po’ sorpresa – miei amici a parte – e qualcuno è venuto a chiedermi ragguagli circa l’identità degli autori. Può essere che gli Ought quindi non li conoscano poi in così in tanti. A me comunque The Weather Song fa impazzire: mi impone di tenere dentro il fiato per il primo minuto, poi parte il fuoco d’artificio e tutto esce fuori d’un botto. Ogni volta che parte il pezzo conto i secondi, sessantadue in tutto, e resto sospeso nel timore che una cattiva magia abbia spostato da qualche altra parte lo stacco che a quel punto arriva, così che io non lo riesca più a trovare e rimanga lì col respiro piombato. Ovviamente quello stacco è invece sempre al suo posto: Yeah, I just wanna revel in your lies. Così posso riprendere a respirare.
Il popolo ha la memoria corta e i più si sono fermati a citare gli Strokes. La prima volta che ho ascoltato il pezzo a me sono venuti in mente i Talking Heads. Vero è che anche la prima volta che ascoltai gli Strokes mi balenò il ricordo dei Talking Heads. I conti quindi, probabilmente tornano comunque.
Bob Mould “I Don’t Know You Anymore”
A tutti prima o poi capita di pronunciare questa frase rivolgendoci a qualche persona che fino all’attimo prima ci era cara: I don’t know you anymore. Se non vi è mai successo beati voi. Ci sono però persone che conosciamo da sempre e pur nelle loro mutazioni, nei cambiamenti necessari e inevitabili, rimangono fedeli a se stesse e le riconosciamo ora esattamente come le riconoscevamo tanti anni fa. Del disco nuovo di Bob Mould ha scritto già Cesare, e l’ha fatto talmente bene che non ho nient’altro da aggiungere. Se non rilevare il corto circuito emozionale che questa manciata di canzoni ha provocato in alcuni di noi. Perché alcuni di noi sono già arrivati al punto in cui oggi pare essere giunto Bob Mould: il momento in cui con determinazione ferrea e fiera convinzione si decide di tirare fuori tutto, chiarendo inequivocabilmente a se stessi e agli altri quello che si è. L’equivoco non è più ammesso quando arriva l’istante. Quello in cui rivendicare il passato di cui ci stavamo quasi dimenticando, affermandolo nel presente e proiettandolo verso il futuro.
L’attimo in cui l’unica cosa che rimane da fare è prendersi le proprie cose e riportarle a casa.
Cold Cave “A Little Death to Laugh”
C’è stato un momento, all’altezza dell’uscita di Love Comes Close, in cui pareva che Wesley Eisold e i suoi Cold Cave stessero per fare il botto. La canzone che titolava quel disco la passavamo spesso nelle nostre serate e alla gente piaceva parecchio. Il disco seguente, Cherish the Light Years, fu in realtà una mezza delusione e non mi pare abbia avuto particolare riscontro in giro. Magari il botto l’hanno pure fatto visto che, se ben ricordo, sono stati scelti dai NIN come spalla per il loro tour di quest’anno, solo che io non me ne sono accorto. Il nuovo disco dei Cold Cave, Full Cold Moon, non è in effetti un nuovo disco dei Cold Cave, bensì una raccolta di singoli usciti nell’ultimo paio d’anni su alcune piccole etichette indipendenti. A quanto pare il vero nuovo album dei Cold Cave uscirà entro fine anno e dovrebbe intitolarsi Sunflower. Eisold lo definisce: a mix between some of the bigger sounds on Cherish and more minimal stuff I’m interested in now, like Suicide or 39 Clocks. Ben venga. Uno che mi cita Suicide e 39 Clocks avrà sempre la mia attenzione, quindi attendo con curiosità. A Little Death to Laugh uscì su un sette pollici Heartworm Press nel 2012. Ha una linea di tastiera semplice semplice, sciabolate di synth che accompagnano una drum machine tenebrosa al punto giusto e quella voce cupa che fa tanto Sisters of Mercy. Robe così le ho ascoltate mille volte suonate da mille gruppi diversi negli ultimi 30 anni. E potrei ascoltarle altre mille volte suonate da altri mille gruppi diversi nei prossimi 30 anni, ma non credo mi stancherei, non ancora.
Ausmuteants “Tinnitus”
Volevo fare un copia e incolla di quello che un paio di settimane fa scrissi a proposito dei Pow!: quella roba sul garage rock e i gruppi che suonano il genere aiutandosi con tastiere e synth, mescolando rock and roll, punk e new wave. E volevo aggiungerci un pensiero ai Brainiac e una citazione dei Man or Astro-man? che fa sempre figo e magari raccoglie pure qualche like trasversale. Ma negli ultimi giorni la tecnologia mi sta restituendo un po’ di quell’odio che le ho riservato negli anni: gli strumenti che sono solito utilizzare non funzionano (oppure sono io a non essere in grado di farli funzionare, in ogni caso il risultato non cambia) e così non riesco a recuperare quelle tre righe, quelle scritte a proposito dei Pow! Detto che punti esclamativi e interrogativi in questo pezzo sono funzionali alle scelte dei gruppi (nel senso che hanno deciso di metterli loro in calce al proprio nome), gli australiani Ausmuteants suonano, com’è scritto sullo sticker tondo appiccicato in alto a destra sulla copertina del loro disco uscito solo in vinile per la sempre ottima Goner, synth-driven snot punk classic! (anche in questo caso l’accezione esclamativa l’hanno messa loro). Assistere a un loro concerto deve per forza essere un’esperienza interessante, ma siccome sono uno che sa accontentarsi, in fondo mi basterebbe anche solo trovare un club dove la gente volesse ballare un pezzo come questo anziché venire a spappolarmi l’umore richiedendo per l’ennesima volta l’ascolto di Oasis e Pulp.
Protomartyr “Ain’t So Simple”
Questa settimana me la sarei cavata con un secondo copia e incolla, ripescando la frase con cui mesi e mesi fa Jonathan Clancy, al ritorno dalla sua permanenza a Detroit, mi descrisse le più interessanti band locali del momento. Tra queste c’erano appunto i Protomartyr, nome che non avevo mai sentito prima ma che diligentemente appuntai sulla mia agenda mentale delle possibili next big thing (prego dare il giusto peso all’aggettivo big considerando che nella mia agenda mentale al primo posto della categoria al momento ci sta gente come Krill e Dub Thompson, per dire). I Protomartyr hanno un cantante che snocciola in modo ripetitivo parole, mantenendo sempre un identico tono, e una linea ritmica che in questa canzone è tutta una sincope di charleston, chitarra e tamburo in contro tempo. Regalano quel senso di urgenza imbrigliata nella noia e (presumo) nell’impotenza trasmessa dal vivere in una città che è la fotografia più spietata possibile del declino dell’impero occidentale.
Scrivendo su questo blog mi accorgo di citare Mark E. Smith e Jonathan Clancy ogni tre per due: la mia monotematicità citazionistica mi sorprende. Devo dire però che la cosa non mi dispiace affatto: pochi punti fermi e attorno satelliti di caos che girano vorticosamente. Buono.
ARTURO COMPAGNONI