Definitely Maybe è un disco gigante. Meglio mettere subito le cose in chiaro.
Se ne leggono un po’ di tutti i colori in questi giorni a proposito. Gli Oasis sono tornati ad occupare le cronache della stampa musicale grazie alla ristampa masterizzata a nuovo di quell’esordio che marchiò a fuoco un’intera stagione.
Sono passati 20 cazzo di anni.
Non amo le ristampe, men che meno le rimasterizzazioni. Sinceramente non mi sono nemmeno preoccupato di ascoltarla, la nuova versione. Sono abituato a giudicare la musica non da un punto di vista tecnico (cosa di cui non sarei nemmeno capace, tra l’altro) ma solo per le emozioni che mi procura. Cuore e non cervello. Sempre e a qualsiasi costo, anche se talvolta tocca pagarne le conseguenze in credibilità.
Gli Oasis sono morti, per quanto mi riguarda, subito dopo aver dato alle stampe quell’album. Ma questa è una di quelle cose che si scrivono o dicono per darsi un po’ il tono di quello che ascolta e ha ascoltato solo la musica giusta al momento giusto.
Comunque erano anni che non ascoltavo quel disco. Intendo ascoltarlo davvero, metterlo nell’impianto, cliccare play con la copertina in mano, seduto sul divano.
Mi sono sorpreso di sentire tutte quelle chitarre, intanto. Ormai identifico gli Oasis come un innocuo gruppo pop. Non mi ricordavo l’energia quasi muscolare di quelle canzoni. Mi è tornata però in mente l’immagine che avevo conservato dopo averli visti dal vivo la prima volta, in quel periodo: i My Bloody Valentine alle prese con il repertorio dei Beatles.
Ben prima che il tutto si trasformasse in una semplice farsa.
Un disco invecchiato bene, inoltre. Ma questo non so se sia davvero un merito dell’album in sé oppure una conseguenza del fatto che quel tipo di musica, suonata con due chitarre, basso e batteria, sia in qualche modo rimasta immobile nel corso del tempo.
Riascoltato ora però mi accorgo anche di quelle debolezze sottolineate da quelli che gli Oasis li hanno presi a bastonate fin da subito. Canzoni inutili come “Digsy’s Dinner”, per esempio (If you could come to mine for tea, I’ll pick you up at half past three, We’ll have lasagne). Un brano indiscutibilmente debole, uno dei pochi passaggi a vuoto di un disco che ha 5-6 canzoni che invece spaccano di brutto. Veri singoli come se ne facevano una volta, quando ancora aveva un senso farli.
Definitely Maybe è l’album che più di ogni altro celebra la giovinezza. Quella è la sua irresistibile forza. È un disco positivo, di energia adolescenziale. Sono canzoni che glorificano la forza primordiale, che ti fanno ricordare quei momenti dove ti sentivi così bene da pensare di essere immortale, che mettono in primo piano quella sfrontatezza sarcastica fatta di feste e vere amicizie. E poi si celebra l’amore, non tanto in senso strettamente romantico, ma anche in questo caso come forza della natura, come vitalità esistenziale.
A proposito di giovinezza: sono andato a controllare. Liam Gallagher, quando uscì l’album, aveva 22 anni. Il fratello 5 di più. Non riesco proprio ad immaginare queste canzoni composte da qualcuno con più di 30 anni sulle spalle.
Se vogliamo è anche il loro limite ma mi pare che i vantaggi siano nettamente superiori.
Quella che può essere scambiata per arroganza (anche solo nella citazione delle influenze: Beatles nientemeno) è al contrario una mancanza di esitazione con la quale pagano i loro debiti senza preoccupazione.
A distanza di vent’anni dobbiamo riconoscere le loro ragioni. Perché non c’è stato più nulla che si sia avvicinato al fenomeno, anche popolare, che ha messo in moto quel disco. È stato in qualche modo anche l’ultimo album “classico”. Subito dopo l’avvento massiccio della digitalizzazione del commercio della musica ha comportato che finisse un’epoca. In questo senso gli Oasis sono oggi un gruppo antico, superato dagli eventi ma non dalla storia.
L’avvento della nuova era di supporto non più analogico ha portato in dote una riscoperta del “catalogo” a discapito della novità.
Non so se sia questa la ragione ma mi sembra di poter affermare senza timore di smentita che il gusto per la novità sia quasi completamente estinto, in particolare in ambito rock. Non so se manchi proprio l’interesse da parte del pubblico, sempre più impegnato nell’ennesima ristampa e riscoperta, o quale sia davvero la ragione.
C’è stato un periodo in cui potevi aspettarti gli Oasis, che comunque arrivavano dopo gli Stone Roses (che esordivano nello stesso anno dei Nirvana, per dire). Giusto per ricordare un altro paio di debutti discografici capaci di lasciare il segno. Avevi la speranza che la settimana dopo potesse uscire qualcosa che davvero avesse qualche rilevanza. Adesso tocca rimanere attaccati al disco di genere e sperare che ce la mandi buona.
Sempre più specializzazione e conseguentemente minore ambizione.
La musica con le chitarre (ma non solo quella) si è trasformata in una faccenda dannatamente autoreferenziale. Come dice Simon Reynolds ci si limita spesso alla citazione della divinità passata in una forma di tributo, di venerazione dei precursori. Il riferimento è deferenza, più un pizzico di gloria riflessa.
Nel debutto dei fratelli Gallagher di tutto questo non c’è traccia. Sottolinearlo oggi ne aumenta ancor più i meriti.
CESARE LORENZI
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