
Per una serie di ragioni differenti è capitato che i Minutemen ricorressero in maniera continuativa nelle mie ultime settimane. Prima ho letto un bellissimo articolo di Bastonate, che casomai vi venisse voglia di ripescare trovate qui. Poi ho riletto il capitolo scritto da Azerrad tratto dal libro “American Indie” dedicato al trio di San Pedro. A quel punto mi sono accorto che il disco dei Minutemen, non l’unico della loro limitata discografia, ma quello che è obbligatorio avere in casa, “Double Nickels On The Dime” giaceva tristemente relegato in uno scaffale dedicato alle cassette. Perdipiù un nastro registratomi da un compagno di università su di una C60 che probabilmente aveva smesso di funzionare già da qualche lustro . Di conseguenza sono andato a recuperare una copia del doppio vinile che ha passato un paio di giorni fisso sul mio piatto. Del resto i Minutemen non li ho vissuti in prima persona, anche per una mera questione anagrafica.
Incrociai per la prima volta la sagoma possente di Mike Watt in un club della costa adriatica che era l’estate del 1989 ed avevo superato da poche settimane i vent’anni. A quel punto i Minutemen non esistevano già più e Mike Watt girava sul solito furgone scalcagnato con i fIREHOSE.
Di quella sera conservo un poster firmato e il ricordo di una chiaccherata lunghissima con lo stesso Mike Watt. Gli feci una domanda banalissima dopo il concerto e lui non si fermò più. Non ricordo i dettagli, so solo che tornai a casa con la consapevolezza che quella era l’attitudine che amavo. Un gruppo che azzerava le distanze tra pubblico e artista. Che si metteva al tuo stesso livello e pretendeva uno scambio. Tutto questo senza seguire dogmaticamente le regole del punk. Semplicemente oltre. Quello per me era il rock indipendente: completa libertà di scelte, autogestione, consapevolmente ai margini del mercato ufficiale. Un’attitudine codificata fin dai tempi dei Minutemen in una semplice piccola frase “we jam econo”, che andrà ad intitolare anche un celebre video documentario sulla band che trovate online senza troppa fatica.
Quel “we jam econo” a ripensarci ora mi pare una frase che sottoindeva un concetto nella sua elementarità assolutamente perfetto. Quell’approccio all’etica del “Do It Yourself” prima che diventasse una scatola vuota, quell’essere punk nell’animo ben più che nello stile sonoro, quella libertà che ha permesso ai tre di San Pedro di divenire un esempio da seguire, una band rilevante ancora oggi a discapito del tempo.
Non sopporto la nostalgia in generale, ancora meno nelle vicende legate alla musica. Talvolta però lo spirito con cui si affrontavano le cose un tempo in qualche modo mi manca.
The Talkhouse è un sito dove i musicisti recensiscono i dischi dei colleghi. Ha avuto un momento di notarietà assoluta nel momento in cui pubblicò la recensione scritta da Lou Reed sul disco di Kanye West, poco prima di morire. Si leggono cose interessanti, esposte da un punto di vista originale, in particolare per quelli come il sottoscritto che sono condizionati da anni di letture di “critici” musicali e “recensori”. L’effetto è assolutamente rinfrescante, come se improvvisamente si potesse scrivere e conseguentemente leggere di musica in maniera finalmente differente. Mi ha colpito in particolare la recensione scritta da Luke Haines (bel personaggio, testa pensante, grande autore in band come The Auteurs e Black Box Recorder) del nuovo album di Sleaford Mods. E non è un caso che prenda ad esempio proprio loro. Perchè se non si fosse capito sono uno dei pochi gruppi “nuovi” che hanno rilevanza e sì, sono tra i pochi che recuperano, in maniera del tutto inconsapevole, quell’attitudine di cui si parlava poco sopra, a proposito dei Minutemen. E poco importa che la California non sia la provincia inglese.

Quello che scrive Haines ma che viene messo in risalto da tutti i commentatori più autorevoli che si sono presi il tempo di scrivere qualcosa a proposito del duo di Nottingham è che la musica torna ad esercitare un ruolo politico. In prima fila. E che lo fa finalmente nell’unica maniera che è ancora accettabile: senza slogan, limitandosi (per modo di dire) ad osservare e raccontare, in maniera rabbiosa ma anche con sorprendenti uscite capaci di strappare un sorriso amaro ( “The smell of piss is so strong it smells like decent bacon”). Sono certo che chiunque abbia attraversato una strada di Brixton o di una periferia di una qualsiasi città inglese alle 5 del mattino di un qualsiasi weekend sappia a che cosa fa riferimento James Williamson, nel suo declamare rabbioso.
Gli Sleaford Mods sono degli alieni della scena, allo stesso modo in cui i Minutemen lo erano all’epoca. Alieni per come hanno affrontato il mercato, sostanzialmente autoproducendosi. Haines, nella sua recensione, fa proprio riferimento a questo aspetto e sottolinea la capacità di circumnavigare il solito hype, lasciando i poveri giornali specializzati d’oltremanica ad arrancare dietro al fenomeno senza nessuna possibilità di gestirlo in prima persona, nonostante l’erezione borghese (come genialmente sottolinea lo stesso Haines) da parte di NME e affini non sia tardata ad arrivare. E comunque chiunque abbia affrontato e discusso queste canzoni non ha potuto esimersi dal sottolineare come facciano da unica e vera credibile colonna sonora a questi tempi terribili dove il Fronte Nazionale rischia di diventare partito di governo. Già solo il fatto che ci sia qualcuno capace di indignarsi e che non si sia fatto travolgere da quel misto di rassegnazione e indifferenza dovrebbe far ben sperare.
Alieni anche nella proposta strettamente musicale, che vive di beat elementari più che minimali, dall’incedere a metà strada tra un rap privo di rime e una session di poesia di strada. Musica non come scelta ma come necessità, inoltre. Che ha l’urgenza politica seppur non ideologica di mettersi metaforicamente per strada senza nessun timore, come capitava alle migliori bands della scena punk un tempo.
Punk nell’anima si dice a proposito di Sleaford Mods ed in effetti è stata solamente questa manifesta attitudine che mi ha portato ad argomentare una presunta quanto arbitraria similitudine con il trio di D.Boon e compagni (che musicalmente è nulla, sia chiaro). Ben più attinente il rantolare abrasivo di Mark E.Smith dei Fall, o come è stato scritto ripetutamente i primi Happy Mondays (anche qui si tratta di attitudine, evidentemente), The Streets e John Cooper Clarke o se si dovesse scendere a pescare qualche riferimento nella scena punk non ci si allontanerebbe troppo dal giro Exploited.
Ma, al di là dei riferimenti, degli Sleaford Mods affascina sopratutto l’abilità di non sottostare all’imperativo della “retromania” e la capacità di assumere, magari in maniera inconsapevole, un’importanza “culturale”. Quando attaccano Noel Gallagher, per esempio. E con lui tutto l’establishment indie d’oltremanica, tacciando di conservatorismo una scena ormai asfittica.
Hanno lo stesso effetto di una ventata d’aria fresca in un’ambiente immobile. Senza rifarsi ad un genere, senza avere modelli di riferimento. Questa è una faccenda di urgenza espressiva, di rabbia e di nessun compromesso. Gente che non ha nulla da perdere., evidentemente.
CESARE LORENZI