Being sad in not a crime
Mi è capitato recentemente di fare uno di quei giochini stupidi che ti passano davanti agli occhi quando passi troppe ore in compagnia di un pc, tra cazzeggio, social network e lavoro. Si doveva raccogliere in una lista 50 concerti a cui si era presenziato, niente di più. Ho tirato fuori l’agenda e in ordine cronologico ho elencato quelli che mi sembravano più significativi. Una bella lista, con alcune chicche, come qualcuno mi ha fatto notare. Tipo un concerto londinese dei La’s, sul finire degli anni ottanta. Un gruppo che durò un battito di ciglia, con un solo album pubblicato che però divenne uno di quei dischi che tutti, in Inghilterra, si misero a citare come influenza fondamentale. Ma quello che mi ha colpito di più, rileggendo quella lista (chi ha voglia e tempo da perdere può farlo qui), è stata l’assoluta ecletticità. Non che sia un particolare merito ma penso non sia così usuale passare dai La’s ai Sonic Youth. O dagli Swans ai Charlatans. La verità è che ho sempre apprezzato generi musicali differenti. Farlo da ascoltatore non è così complicato, in effetti. Serve solo un pò di predisposizione a non schierarsi in fazioni, presumo.
Tutt’altro discorso trovare un musicista che sia capace di districarsi tra percorsi musicali a trecentosessanta gradi, che lo sappia fare veramente e non sia Damon Albarn.
Il mio preferito, uno dei pochissimi veri eclettici, è Arthur Russell. Un musicista con una storia straordinaria alle spalle, affascinante e drammatica come si compete ad un vero artista. Ha vissuto una di quelle vite talmente sfaccettate che raccontarla tutta diventa praticamente impossibile.
Nativo dello Iowa cresce con una educazione musicale classica: il violoncello sarà lo strumento che in un modo o nell’altro farà da unico filo conduttore in una produzione capace di spaziare dalle ballate più tradizionali, alla disco music, fino all’avanguardia.
Dopo la sua morte, avvenuta nel 1992, a soli 40 anni, ucciso dall’AIDS è cominciata una lenta scoperta delle centinaia di nastri che ha lasciato archiviati nel suo appartamento newyorkese.
Sono tre alla fin fine le raccolte che vi permettono di avere un quadro più che esauriente della sua produzione: The world of Arthur Russell uscita per la Soul Jazz che mette in risalto in particolare la vena disco, World of echo pubblicato da Rough Trade che alla fine è l’unico album uscito quando Arthur era ancora in vita, dove si trovano molte delle cose più sperimentali e il più recente del lotto Love is overtaking me che invece si concentra sui brani più acustici, più vicini alla tradizione.
Detto questo e con nessuna voglia di addentrarmi in un trattato biografico non mi rimane che abusare di questo spazio per dirvi che se non recuperate il lavoro di Arthur Russell probabilmente avete qualche problema serio oppure, più semplicemente, la musica ha smesso di interessarvi già da un po’, anche se non volete ammetterlo. Potreste scoprire con stupore che i LCD Soundsystem ci hanno costruito una carriera sopra, oppure potrete accorgervi dove James Blake ha pescato a piene mani e come Jeff Tweedy degli Wilco ha pagato più volte tributo.
A proposito di tributo, uscirà a breve una doppia compilation. Noi mettiamo le mani avanti e vi diciamo subito che è molto ma molto meglio l’originale e che i dischi tributo, in genere, ci stanno decisamente sulle palle.
Il Fiver di oggi è dedicato ad Arthur Russell, interamente. Ma cinque canzoni non possono che essere un primo piccolo passo in un mondo di un fascino con pochi confini.
Talking Heads – Psycho Killer (B-Side) ft Arthur Russell
Poco dopo essere sbarcato a New York, Arthur Russell, finì a ciondolare negli ambienti del punk, che ancora non sapeva di essere tale, lasciandosi alle spalle una complicata convivenza con Allen Ginsberg. Tra le mille collaborazioni mai terminate, i progetti solo abbozzati, si ritrovò in studio di registrazione con i Talking Heads. Registrarono una take alternativa di Psycho Killer che di per sè è un brano fantastico ma in questa versione ancora di più.
Arthur Russell – That’s Us/Wild Combination
That’s Us / Wild Combination è forse il brano più accessibile della sua produzione. Un violoncello filtrato da effetti, un synth e una melodia straordinaria. Un brano che come al solito fu arrangiato, ripensato, riarrangiato nuovamente, in un’infinità di versioni. Non esisteva mai per Arthur il momento in cui dire basta, ci siamo. Dopo la sua morte ci si ritrovò tra le mani un’incredibile varietà di materiale che vide poi la luce in svariati album postumi. Il problema di non riuscire a definire un punto d’arrivo, però, fu anche la principale ragione di una vita tutto sommato passata ai margini di un possibile successo. Troppo avanti, troppo oltre, troppo meticoloso, troppo paranoico. Non un caso che ascoltato ora, un brano come questo sembra addirittura perfetto per i tempi che stiamo vivendo. A distanza di 25 anni dalla sua registrazione.
Dinosaur L – Go Bang
Alla fine il pane se lo guadagnò nella scena disco newyorkese. Naturalmente i parametri ristretti della disco music in quanto genere risultarono immediatamente indigesti e Arthur Russell contribuì in maniera fondamentale ad uscire dal tunnel della banalità. Una visione più ampia e un approccio a 360 gradi gli consentirono di codificare proprio un nuovo linguaggio e un brano come questo è considerato una delle pietre miliari di tutta la produzione disco della New York dei primi anni ottanta. Un brano influenzato nello spirito da Allen Ginsberg, con cui rimase comunque sempre in contatto anche dopo la fine della loro storia, che incoraggiò Arthur ad essere particolarmente aperto nella sua musica nei confronti della propria sessualità.
Loose Joints – Is It All Over My Face?
Non poteva essere un comune produttore di musica disco, naturalmente. Difatti, a discapito dei normali produttori che si concentrano quasi esclusivamente sul ritmo, Arthur Russell finiva invece a lavorare quasi esclusivamente sulla struttura, trascinandosi addirittura in territori ambient. Non è un caso che alcune delle sue combinazioni finirono nel risultare particolarmente popolari nel momento del chill out, domostrando anche in questo caso di arrivare con qualche decennio di anticipo su quello che verrà poi. Questo è un altro dei suoi brani più noti in ambito disco.
L’ecletticità viaggiava a pari passo con le paranoie (ad un certo punto si chiuse in casa e non fece più ascoltare nessuna delle sue composizioni, convinto che la gente gli rubasse le idee) e con l’assoluta incapacità di gestire in maniera professionale un qualsiasi appuntamento di lavoro. Univa le persone con un’attitudine simile alla sua, però. E si ritrovò nel corso degli anni a collaborare con i Modern Lovers, John Cage e Philip Glass. Dall’avanguardia alla pista da ballo dello Studio 54 come se fosse un unico grande mondo.
Arthur Russell – I could’t say it to your face
Alla fine, però, l’Arthur Russell che personalmente preferisco è quello più tradizionale. Quando si limita alla composizione legata ad una strumentazione tradizionale regala delle perle di ballate come nessun altro. Voce, chitarra o tastiere, una sezione ritmica appena accennata ma certe canzoni non si riescono proprio a dimenticare. Questa, per esempio, è probabilmente la mia ballata preferita in assoluto, la quintessenza della musica americana degli ultimi quarant’anni.
……extra track
Di questa canzone circola una cover deliziosa, registrata dal vivo, di Tim Burgess. Sulla carriera solista dell’ex-Charlatans prima o poi toccherà tornarci e spenderci del tempo. Ha intrapreso una strada piena di sorprese e regalato piccoli gioielli. Ma, come detto, ne riparleremo prima o poi.
Cesare Lorenzi