
Il 2014 per quanto mi riguarda è stato l’anno del ritorno dei Fugazi. E i Fugazi sono stati un gruppo speciale per tanti motivi. Per esempio le foto del gruppo. Ce ne sono alcune dove fissano dritto in camera, senza tentennamenti o esitazioni, e l’impressione è proprio quella che siano loro a guardar te, e non viceversa.
Per diversi anni, quelli della mia giovinezza, quello sguardo si è confuso con quello della mia coscienza e ogni volta, quindi di frequente, che suonavo un loro disco, loro stavano lì a fissarmi con quell’aria seria ma rassicurante che chiamava all’impegno più che allo svago: quello che stai facendo non è solamente ascoltare della musica. L’impegno e la dedizione era il prezzo da pagare per sentirsi parte di qualcosa, di quella cosa, e io ho sempre pagato volentieri.
E anche oggi che tutto è cambiato, a 25 anni dalla prima volta che ho ascoltato Waiting Room, continuo a sentire quella frase che la mia coscienza mi ripeteva prendendo in prestito il volto dei Fugazi. Ad ogni disco che compro, ad ogni disco che suono, ad ogni coda che mi porta all’ingresso di una sala concerti.
Per questo avrei voluto cominciare questo fiver partendo da First Demo, con un loro brano. Ma non posso per una ragione molto banale: non riesco ad ascoltare quel disco. L’ho comprato, in vinile ça va sans dire, l’ho aperto, toccato e annusato seguendo il mio personale rituale, ho indugiato sulle foto e le note di copertina, poi l’ho messo via. Mi succede anche con Repeater per la verità. Ho paura di riascoltarlo. Di cosa esattamente è difficile dire, forse è anche solo paura che la mia coscienza torni a farsi sentire e con lo sguardo di Ian MacKaye mi inchiodi a una raffica di domande: e allora cosa hai fatto in tutti questi anni? Hai solo ascoltato dei dischi? E che ne è stato dell’attitudine? E l’impegno?
Ecco, ogni tanto io mi domando se sia mai esistito un altro gruppo così, capace di interrogarti, di sovrapporsi alla voce della tua coscienza. Un gruppo che per diventare veramente tuo, in qualche modo te lo dovevi meritare. Dovevi sentirti alla loro altezza.
A volte penso che mi piacerebbe che arrivasse qualcuno capace di spiegare cosa sono stati i Fugazi. A me mancano le parole. Ma forse non c’è bisogno di spiegare un bel niente. L’importante è che continuino a uscire gruppi capaci di ripartire da quella attitudine e da quel suono, come questi ragazzi canadesi con cui ho deciso di cominciare la mia cinquina.
Non me ne voglia la maggioranza che ascolta i dischi senza comprarli, ma questo fiver è dedicato a chi ogni tanto compra i dischi senza ascoltarli. Sia per abitudine, noncuranza o debolezza o per le ragioni più svariate. So che non sono il solo. Le cinque canzoni che seguono sono tra le mie preferite di questo 2014 e hanno in comune il fatto di far parte di album passati un po’ in sordina e, ognuno a modo suo, di saper guardare al passato in maniera intelligente e personale. Insomma, citando Cesare Lorenzi nel precedente fiver, gente capace di guardare indietro vivendo il momento invece di rincorrerlo.
Greys – Guy Picciotto
Confesso che inizialmente mi era sfuggito questo If Anything, esordio di lunga durata della band di Toronto. Siano benedette le classifiche di fine anno che permettono di recuperare queste chicche dunque (e segnatamente quella di Crack). Come accennato, la geografia dice Canada ma il cuore dice Washington DC in questo caso. Se ci fossero dubbi sul background del loro suono, ci pensano loro a mettere le cose in chiaro intitolando il brano d’apertura Guy Picciotto. Rispetto ai Fugazi, il suono è più metallico e il drumming più quadrato (e in questo ricordano i concittadini Metz) ma la sostanza non cambia.
Wildest Dreams – Last Ride
Londra, New York e Los Angeles. Il punk, la dance e la psichedelia. Dj Harvey deve essere talmente abituato a trovarsi al posto giusto al momento giusto che ormai deve essersi anche convinto che è lui a far succedere le cose. E forse non sarebbe neanche così lontano dal vero. Il nuovo album dei suoi Wildest Dreams gli assomiglia molto: libero, selvaggio ed estremamente cool. Attaccare i cavi, alzare i cursori e via: si cominci a sudare.
Lust For Youth – New Boys
Che poi uno ci prova a fare il duro, a imporsi la linea dura, a dire “no, è ora di finirla con il saccheggio degli anni ‘80”. Ecco, e poi arriva un trio di nordici coi capelli rasati e i fisici glabri che, per infierire, recuperano proprio quell’electro-pop nella maniera più pedissequa e calligrafica, e son capaci di azzeccare una canzone perfetta come questa. E a te non resta che cedere ancora, per l’ennesima volta.
Klaus Johann Grobe – KOthek
Il 2014 è stato un grande anno per il kraut revival. In molti hanno recuperato quel suono ancora una volta e spesso lo hanno fatto dalla periferia dell’impero, come i nostri Lay Llamas o gli svedesi Les Big Byrds. Anche il gruppo in questione viene da un paese periferico come la Svizzera e dio benedica la Trouble In Mind per averli scovati. La loro rivisitazione del kraut punta dritto in direzione pop con risultati eccezionali. E per di più in tedesco.
Rodrigo Amarante – Tardei
Per questo ultimo titolo ero indeciso tra lui e Sabina. Un’altra brasiliana che ha firmato un gran bel disco quest’anno (e credo di recente passaggio in Italia). Diciamo che sono affascinato dagli incontri tra culture e dall’utilizzo dal recupero del proprio linguaggio all’interno di una tradizione musicale differente (un altro ottimo esempio sono The Limiñanas). In ogni caso Rodrigo Amarante è il più bravo e il suo album Cavalo è stato scandalosamente snobbato. Recuperatelo se vi è sfuggito.
Luigi Mutarelli