
Ok, l’hanno giá detto in parecchi. Ma devo dire che ci ero arrivato da solo la prima volta che l’ ho ascoltato. Una questione di fili, invisibili agli occhi di molti ma nei quali sono inciampato, fortunatamente o forse no. C’è un filo invisibile ma molto resistente che unisce Either/Or al nuovo Sufjan Stevens Carrie &Lowell. È una faccenda seria per il sottoscritto. Elliott Smith, un punk centrifugato da esperienze di vita sempre poco meno che disastrose e trasformato in un cantautore dal talento pazzesco, aggrappato al filo di un’esistenza per lui inaffrontabile. Probabilmente, nella loro assurda (im)perfezione, le immagini più esemplificative sono quelle di Elliott alla serata degli Oscar che sciorina Miss Misery, aggrappato alla sua chitarra come se dovesse essere spazzato via da un momento all’altro da un contesto lontano milioni di anni luce dalla sua essenza. Il bel regalo fattogli da Gus Van Sant che fece assurgere a effimera gloria le sue canzoni in Good Will Hunting. Per arrivare a Either/Or ovvero Lennon Mc Cartney e i fratelli Wilson in una dimensione parallela, relegati su un marciapiedi di Los Angeles, una vita da emarginati, alla ricerca di un altra dose.
..Drink up one more time
And I’ll make you mine
Keep you apart
Deep in my heart
Separate from the rest, Where I like you the best
And keep the things you forgot, the people you’ve been before
That you don’t want around anymore
That push and shove and won’t bend to your will I’ll keep them still..(da Between the bars)
Ovviamente non molto tempo dopo il filo si spezzò. Come quello che reggeva la sfortunata, a quel che sappiamo, esistenza di Carrie. Madre di Sufjan con storie alle spalle di abbandoni ingiustificabili, vizi assortiti e dissoluzioni varie. Sufjan, talento notevole e, ora lo possiamo dire, ancora inespresso a questi livelli, a queste altezze, esorcizza, o forse meglio ancora, sublima la materia di cui sono fatte vite intere. Rimpianti, dubbi, tardiva consapevolezza.
..I should have wrote a letter
And grieve what I happen to grieve
My black shroud
I never trust my feelings
I waited for the remedy
When I was three, three maybe four
She left us at that video store
Be my rest, be my fantasy.. (da I Should Have Known Better)
Il privato assurto a pubblico ma non in uno squallido post su un social accanto al tutorial per cucinare le alici o alle foto di compleanno di uno sconosciuto. Il privato reso forma d’arte capace di commuovere, incazzare, incantare, durare. Ricordo una polemica ai tempi della Palma d’oro alla Stanza del figlio di Moretti. Facile commuovere e raggiungere grandi risultati con i “grandi drammi”. Non so, credo che ognuno di noi abbia avuto i suoi “grandi drammi” e che la capacitá di raccontarli, condividerli, ci fa sentire meno soli. Più vivi. Probabilmente Carrie e ed Elliott si incontreranno altrove, Between The Bars. Attratti da una forza invisibile ed ineluttabile con parecchie storie da raccontarsi. Una questione di fili, appunto.
Questo pezzo è stato scritto originariamente per la fanzine No Hope con cui condividiamo un ideale gemellaggio. Proseguendo secondo l’ immaginario calcistico il 21 e 22 maggio ci incontreremo per scambiarci le sciarpe, intonare qualche coro insieme e molto altro ancora che preciseremo fra non molto. Chi vorrà unirsi a noi sarà il benvenuto.
Spring King – City
A proposito di fanzine. Questi ragazzi di Manchester capitanati dal batterista Tarek Musa (!) oltre a confezionare una canzone dall’incedere fuzz/garage/pop veramente contagiosa, tratta dall’Ep di ottimo livello They’re Comin After You, punteggiano il tutto con un video veramente avvincente dove si alternano a raffica copertine di fanzine più o meno storiche. Quando al minuto 1.36 sfila la copertina della fanzine che questo blog omaggia nel nome e, si spera, nell’attitudine il cerchio si completa e leviamo le braccia al cielo estasiati.
White Reaper – Make Me Wanna Die
Da Louisville, Kentucky. Giovanissimi, con il poster dei Ramones appiccicato con lo scotch sui vetri del loro van scassato mentre la radio manda Vaccines, Buzzcocks e Jesus and Mary Chain a ciclo continuo. It’s all about speed, compression, fuzz and the melodic potential of the drone for these boys dice il Guardian e non possiamo che concordare.
Metz – Spit You Out
I canadesi picchiano duro con i piedi piantati negli anni 90 e lo sguardo fisso sull’orizzonte. Certo che.. leggi Sub Pop, senti la canzone e la parola che comincia con la N e finisce con irvana salta subito in mente ma.. rabbia, volume e distorsione sono un patrimonio universale (o almeno secondo la mia personalissima scala di valori) ed i Metz, nel loro nuovo e secondo album, attingono da tutto ciò con intelligenza e passione.
Total Babes – Circling
Un altra palla di suono infuocata. Dissonante e disturbata, con una chitarra che urla Wire! e Gang Of Four! in sottofondo e improvvise aperture melodiche. Total Babes è la creatura di Jayson Gerycz che pesta i tamburi per i Cloud Nothings di Dylan Baldi che in coda al pezzo maltratta il suo sax come un novello epigono di James Chance. Il tutto, ça va sans dire, lussurioso per le mie orecchie.
Girl Band – Lawman
Cocchi indiscussi della stampa inglese. In giro ormai da un paio di anni, il quartetto di Dublino sembra pronto per spiccare il volo. Presenti nei cartelloni dei festival che contano dalla Route du Rock a Visions non indietreggiano di un millimetro nell’oltranzismo della loro proposta sonora che pesca a piene mani in certa wave britannica minimalista di primi anni 80. Vedere per credere questo video e, se siete di stomaco mediamente forte, il nuovo Why they hide their bodies under my garage? Rispetto totale e incondizionato.
Massimiliano Bucchieri