
At night when there’s no moon
No one has a history
The dark ages last a few hours
But that’s all the time that’s needed
To erase memories, create horrible dreams, ruin sleep
Destroy all possibility of elimination
(Bedhead, The Dark Ages)
Da qualche tempo nel calendario di alcuni club che frequento corre l’obbligo di inserire con ricorrenza ciclica feste a tema anni ’90. Di solito non vado a mettere dischi in queste occasioni. Non lo faccio per diversi motivi che credo interessino solamente a me, quindi non starò qui a farne un elenco. Una di queste ragioni mi serve però ad introdurre l’argomento di oggi. Dovessi trovare una musica che rappresenta bene i miei anni ’90 questa sarebbe la musica che stava dentro i dischi dei Bedhead. Che non è esattamente una musica da suonare ad una festa. Per quanto certe canzoni di Transaction de Novo, tipo Extramundane, potrebbero anche funzionare.
Qualche mese fa è uscito un bellissimo box curato dalla ottima Numero Group per raccogliere l’intera discografia dei Bedhead. I tre album in studio e un quarto disco, doppio nel cofanetto di vinili, in cui sono infilate le canzoni uscite nella manciata di singoli pubblicati dal gruppo. C’è anche una cover di Golden Brown degli Stranglers, sino ad ora inedita in quanto destinata al lato b di un 45 giri mai pubblicato.
C’è invece la loro versione di Disorder dei Joy Division. Di quella canzone ho già scritto su questo blog, ma torno a parlarne ora. Perché se c’è un momento in cui la vita prende una svolta secca e quel momento ha una sua precisa colonna sonora, allora l’attimo va celebrato con ogni riguardo. Quelli sono momenti cui in genere assistiamo solamente da spettatori di un film, molto difficilmente ne siamo parti in causa in prima persona. Uno di quei momenti a me capitò il 16 maggio del 1998, quando vidi suonare i Bedhead alla vecchia sede del Teatro Polivalente Occupato in via Irnerio. Il concerto fu di una intensità notevole, un impatto emotivo nel mio caso amplificato dal momento del tutto particolare che mi trovavo a vivere proprio in quelle settimane. Quella canzone, piazzata nei bis a fine concerto, fu in cinque minuti in grado di rappresentare rovina e catarsi, come ad aprire una voragine nel pavimento al primo colpo di batteria capace di inghiottirti dentro fino al buio più nero per spedirti poi fuori lanciandoti verso un altro mondo, totalmente nuovo, all’ultimo feeling, quasi aspirato sul fondo della canzone. Una versione in cui il nervosismo che nell’originale confluisce da subito in una blitzkrieg wave incalzante ed elettrica viene invece compresso, prima ancora che represso, in una lunga e dilatata slow motion, con la batteria che anziché far da traino a un treno in corsa si limita a fornire un tappeto di felpa su cui si intreccia il dialogo tra le chitarre mentre la voce racconta. Così intensa da togliere il respiro, eppure dolcissima.
Dei Bedhead sta per uscire un disco che documenta proprio quel tour. Mille copie pubblicate sempre dalla Numero Group in occasione del Record Store Day: il concerto di Chicago all’Empty Bottle nel tour di Transaction de Novo, giusto un mese prima di quello di Bologna, il 16 aprile del 1998.
Mi sono dato la regola di non comperare dischi pubblicati appositamente per il Record Store Day.
Questa volta la infrangerò.
Dei Bedhead ho appena scritto anche per la fanzine No Hope, articolo cui qui sopra ho rubato giusto una frase. Alla fanzine teniamo molto tutti noi di Sniffin’Glucose, la supportiamo e ci scriviamo, ci crediamo quanto ci credono i ragazzi che la fanno.
Presto, molto presto, faremo festa assieme.
Se ne parlerà a tempo debito, per ora controllate in agenda gli impegni del 21 e 22 maggio, se ne avete cancellateli, viceversa tenetevi liberi per quei due giorni.
Marching Church “King Of Song”
La passione per Nick Cave mi è montata su negli anni, con lo scorrere in avanti del tempo.
Il cantante degli Iceage invece evidentemente ci è arrivato subito, sin da giovanissimo.
Fossi una ragazza io di un tipo così, che canta una canzone così, mi innamorerei perdutamente.
The Manhattan Love Suicides “(Never Stop) Hating You“
Mi piace la gente consapevole. Quelli a cui piacciono certe cose e solo certe cose e non si vergognano a dirlo. Soprattutto se anche a me piacciono quelle stesse cose. I Jesus and Mary Chain di Psychocandy, i primi singoli di Motorcycle Boy, Flatmates, Primitives e le Talulah Gosh, l’unico 45 giri pubblicato dai Meat Whiplash e qualunque cosa abbiano inciso le Shop Assistants, Son of a Gun dei Vaselines e Truck Train Tractor dei Pastels. E si, i Manhattan Love Suicides li trovo fantastici sin dal nome che si sono scelti.
Free Pizza “Baby Girl”
Ve la do buona subito: il nome fa schifo. Il pezzo no. Vengono da dove dichiara il titolo del loro primo album (Boston, MA) e per presentarsi nominano Meat Puppets, Angst e Texas Instruments.
Immagino che a chi ha meno di 40 anni questi nomi dicano poco. Pazienza.
Prinzhorn Dance School “Reign”
Con i Prinzhorn Dance School è stato amore a prima vista. Poi li ho visti suonare due volte dal vivo e l’amore è cresciuto esponenzialmente. Un sacco di gente che conosco ha sprecato un sacco di tempo dietro a un sacco di inutili gruppi che negli ultimi 30 anni hanno provato a reinventare i suoni wave e in pochissimi si sono filati questi due. Tanto che credevo avessero deciso di chiudere baracca. Quando qualche giorno fa ho imparato che i Prinzhorn Dance School ad inizio giugno sarebbero usciti con un nuovo disco sono stato contento come un bambino quando si avvicina il natale.
Nic Hessler “Hearts, Repeating”
Sole, tavolini di legno sul bordo della spiaggia, liquidi trasparenti e ghiacciati in bicchieri di vetro. Questa è una delle possibili colonne sonore. La mia di sicuro.
Arturo Compagnoni