Pavement
Pavement

No, i Pavement non sono stati un gruppo come un altro, per quanto mi riguarda. Una delle primissime cose che concordai con Rumore fu un’intervista all’epoca del loro album di debutto. Vide la luce sul numero 9 della rivista, nel settembre del 1992.
A gennaio del 2001 firmai l’ultimo articolo, otto anni e pochi mesi dopo quella prima intervista. Si trattava di un resoconto delle varie attività di Malkmus e soci, per la prima volta in libera uscita, tutti più o meno impegnati nelle nuove attività musicali dopo la separazione della band.
No, non è stato un caso. Con la fine del gruppo di Malkmus e soci è come se si fosse anche esaurita la mia personale spinta allo scrivere di musica. Non ne avevo consapevolezza, allora. Mi sembrava solo di aver perduto gli stimoli giusti e non pensavo ci fosse una correlazione con la contemporanea fine del gruppo. O forse avevo troppo in testa le parole di qualche canzone della band….whenever I feel fine, I’m gonna walk away from all this. I wanted to stay there, but you know I needed more than that.
Era la fine di un’epoca, invece.
Mi fa sorridere il fatto che gli anni novanta abbiano assunto nel frattempo un’aura di mito da celebrare nonostante non abbia personalmente nessuna intenzione di partecipare a qualsivoglia resurrezione. Barra fissa verso il domani. Quasi una regola fissa per me e per quelli che mi fanno compagnia qui, tra le pagine virtuali di questo blog. Ma i Pavement insomma meritano anche uno strappo ai propri principi, avrete inteso.
In questi giorni si celebra il ventennale del terzo album del gruppo, Wowee Zowee.
Qualcuno, all’estero, ci ha scritto sopra un paio di concetti interessanti.
Primo: si può considerare l’equivalente di quello che ha rappresentato In Utero per i Nirvana. Disco trattato con poca indulgenza appena pubblicato ed invece destinato ad essere rivalutato in seguito.
Secondo: è stato l’album dei grandi rifiuti. In particolare nei confronti dell’industria discografica che ne avrebbe fatto volentieri i nuovi REM. Risposero con una canzone eloquente fin dal titolo: Fuck This Generation (poi trasformata in Fight This Generation).
Certamente all’epoca il disco venne accolto con scetticismo, come se si fosse sprecata una grande occasione. Ho recuperato una lunga intervista che feci a Mark Ibold in una mattinata di una fantastica primavera romana, nei giorni in cui l’album vide la luce. Ve la metto qui, alla fine di questo Fiver. Viene fuori la consapevolezza estrema con cui affrontarono le registrazioni. La voglia di piantare recinti invalicabili. Si intuì insomma che i Pavement non avrebbero mai potuto trasformarsi in qualcosa d’altro. Anche da scelte controverse come quella nacque un piccolo mito che ancora oggi, a vent’anni di distanza, continua a fare proseliti.
Ottimo disco di transizione o capolavoro da rivalutare è faccenda oziosa, alla fine. È una certezza invece quello che Wowee Zowee rappresenta: la capacità di mettere al centro delle priorità la propria integrità. Roba che non ha tempo ne data di scadenza.
Sinceramente, quel disco, non lo avevo mai più riascoltato. L’ho fatto ora, stimolato dalle belle chiacchere che sono state fatte in proposito. Insomma, lo sappiamo, c’è modo e modo d’invecchiare. Questa canzoni lo fanno nella maniera migliore possibile. In qualche modo mi rendono orgoglioso di appartenere a quella generazione (io e Malkmus siamo praticamente coetani). Ecco, mi piace credere di aver affrontato la vita allo stesso modo con cui i Pavement affrontarono lo scoglio di quel terzo album: con sfrontatezza, consapevoli di effettuare la scelta più scomoda. Con l’illusione di guardarsi allo specchio la mattina e non dover abbassare lo sguardo. Senza nessun rimpianto, senza nessun rimorso nonostante qualche inevitabile cicatrice.

PAVEMENT “AT&T”

JIMMY WHISPERS “Vacation”

Immaginatevi Daniel Johnston alle prese con qualche tastiera analogica scassata, una vecchia drum-machine e un’estate passata in un luogo troppo caldo, senza rifugio. Jimmy Whipsers canta canzoni senza protezione, alla ricerca di amore e di salvezza. Si mette completamente a nudo facendo della propria arte la propria vita. Regala un album di canzoncine fragili, stonate e spaccate. Ma quelle piccole melodie appena accenate rischiano comunque di rimanere indimenticate. Quantomeno a me fanno quell’effetto.

PROTOMARTYR “Blues Festival”

Grande band, i Protomartyr. Che ritorna con un singolino split pubblicato in occasione del Record Store Day. Si picchia duro nei territori di un blues stravolto, degno erede di Birthday Party e compagnia. Kelly Deal, delle Breeders, fa presenza discreta non modificando di una virgola il tiro di una grande canzone.

TAPE RUNS OUT “Friends”

140 secondi di perfezione pop, si sarebbe detto un tempo. Roba che potrà piacere a chi ha apprezzato in passato i primissimi Interpol, per esempio. Una canzone che finisce inaspettata nel momento in cui ci si aspetterebbero riverberi di chitarre e feedback leggero. Non so, se avete qualche disco degli Slowdive in casa, farete meglio a dargli un ascolto.

INSTITUTE “Perpetual Ebb”

Mi fa impazzire il tono con cui il cantante affronta la canzone: scazzato, non preoccupandosi per nulla di rendersi intellegibile. Sarà la fascinazione slacker, sarà che sembra un brano del primo album degli Stooges ma questa canzone basta e avanza a farmi diventare il prossimo debutto sulla lunga distanza di questi giovani texani uno dei dischi più attesi della stagione.

Cesare Lorenzi

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