L’ultima volta che ho visto Lou Barlow dal vivo era il 2010 e stava sostenendo col basso un assolo infinito di J Mascis. A un certo punto, all’ennesima svisata del chitarrista dei Dinosaur Jr., Lou gli ha rivolto un’occhiataccia esasperata il cui significato era fin troppo trasparente anche per il pubblico astante: “Vogliamo andare a chiusura una buona volta?”. Ecco, in quel momento rivelatore ho pensato che sì, Lou ce l’aveva fatta. Perché se dopo avere scritto alcune delle pagine più belle degli anni ’90, avere fatto parte dell’olimpo dell’indie rock con i Sebadoh, ti ritrovi a fine carriera a fare da sostegno all’ennesimo attacco acuto di sindrome da Neil Young del tuo amico/nemico di sempre… beh allora sì, lo possiamo dire: sei un perdente. E io a Lou Barlow ho sempre voluto bene per tante ragioni, ma soprattutto perché grazie a questo disco mi ha messo di fronte a una verità troppo evidente perché ne prendessi coscienza da solo: ci sono perdenti che vincono e perdenti che perdono. Gli anni ’90 sono stati probabilmente la golden era dei perdenti di successo. Quelli che vendevano milioni di copie cantando “I am loser baby… so why don’t you kill me?”, quelli che erano più ambiziosi di quanto fossero disposti ad ammettere (vero Stephen Malkmus?) e quelli che non furono in grado di reggere il peso di una popolarità a cui non erano minimamente preparati (sì, sto pensando a Kurt Cobain). E poi, perché no?, possiamo aggiungere all’elenco i nomi citati dallo stesso Barlow in quell’anthem per una generazione senza inni intitolato Gimme Indie Rock: Thurston Moore e i Sonic Youth, Pussy Galore e gli Stooges, passando per gli Hüsker Dü per arrivare fino agli stessi Dinosaur Jr. Un pantheon preso affettuosamente per i fondelli come da chi sa, già nel 1991, che non entrerà mai a farne parte, e per una ragione molto banale: ha scelto di starne fuori.
E poco importa che Lou Barlow non sia stato l’unico a portare avanti con intransigenza l’ideale di un perdente fiero di esserlo, di sicuro resta quello che lo ha fatto con un’ironia e una leggerezza che parlavano alla mia sensibilità di teenager di provincia (soprattutto se paragonata all’alternativismo militante in voga all’epoca) e cantando con orgoglio la propria appartenenza non solo attraverso i titoli dei dischi (questo The Original Losing Losers dei Sentridoh, ma anche Sebadoh VS Helmet suggerisce una forte presa di posizione in senso estetico) ma attraverso un suono e un attitudine che esprimevano appieno questo concetto: melodie perfette bruciate in meno di un minuto, appena accennate o lasciate volutamente allo stadio di bozzetti, riffoni hard parodiati con un suono troppo approssimativo anche per il più entusiasta dei fan del lo-fi, palesi e irresistibili prese per il culo (si pensi anche all’esilarante video di Ocean). E allora anche se non consiglierei mai di cominciare da questa raccolta a qualcuno che volesse scoprire la musica di Lou, io mi tengo questo album come qualcosa di caro e di prezioso, perché qui c’è molto più di una quarantina di melodie buttate lì. Qui c’è una visione, un mondo che non c’è più e a cui sono stato fiero di appartenere.
Ecco, io a Lou Barlow voglio bene non solo perché mi ha indicato qual era il mio posto – da che parte volevo stare – ma perché mi ha insegnato che potevo andarne fiero.
Luigi Mutarelli
Questo pezzo, come tutti quelli che state leggendo in questi giorni, sarà pubblicato su carta nel numero speciale della fanzine No Hope, distribuito in occasione del No Glucose Festival il 21 e 22 maggio al Mikasa.
Naughty Betsy live @ No Glucose – 21.05.15