RoyalTrux_Accelerator
La prima volta che misi sul piatto Accelerator rimasi istantaneamente folgorato dalla sua partenza. Mi piacque da subito il fatto che il disco cominciasse esplicitamente con un ritornello. Che poi, oddio, definirlo ritornello è davvero un azzardo, ma tant’è. Apprezzai la scelta di arrivare immediatamente al nocciolo senza perdere tempo, evitando i preamboli. Poche chiacchiere insomma: come avviare una canzone da metà, rifiutando canoni e strutture prestabilite con una dimostrazione di snobismo e noncuranza che è poi anche la propria dichiarazione di forza, la cifra stilistica di qualcuno che è già andato oltre e non riesce a tornare indietro se non facendolo a modo suo. A conferma di tanta ricercatezza, probabilmente del tutto casuale in quanto innata, scorrendo la mezz’ora che segue ci si accorge poi che le canzoni spesso terminano viceversa inattese, così come a sorpresa il disco era cominciato. Quando ancora si scruta il passaggio dietro un giro di chitarra attendendo un proseguo, il volume improvvisamente sfuma e si passa oltre.
In quella canzone che inizia dal suo centro ed inaugura il disco, esplode la voce rauca di Neil Michael Hagerty che si aggrappa alle parole: Now you know I’m ready/Can’t you see I’m ready/Well hell you know I’m ready/Now you know I’m ready e continua One more time around the block with me/One more time around the block, come a scolpire un semplice concetto. Che forse per loro, per i Royal Trux, tanto semplice in quel momento non era. Accelerator, anno di grazia 1998, è il disco che con i suoi auto dichiarati riferimenti agli anni ’80 (personalmente ho sempre fatto fatica ad individuarli questi riferimenti) concludeva l’ideale analisi dei tre decenni precedenti avviata con Thank You, il disco sixties, e proseguita da Sweet Sixteen dove sotto i riflettori erano finiti gli anni ’70. Ed è anche il disco del ritorno a mamma Drag City dopo l’esperienza Virgin, major che in preda alla fregola post Nirvana aveva follemente deciso di prenderseli in casa tre anni prima, sborsando la cifra di un milione di dollari per tre dischi. La lusinga stava nelle briciole di ordine che i due avevano infilato tra i solchi di Cats and Dogs, album che dopo anni di confusione e rumore aveva alzato una parabola che pareva potesse essere finalmente destinata a far loro bucare le nuvole, portandoli al sole. Un sole intossicato dai miasmi delle ciminiere sottostanti e inquinato da fiumi di droga, ma pur sempre un sole. In quel disco i Royal Trux avevano introdotto per la prima volta il concetto di normalità nel proprio suono, una normalità sui generis e tutta loro, comunque un notevole scarto in avanti se confrontato con i ritagli apparentemente privi di senso, per quanto imbottiti di spunti creativi, sparpagliati nei loro primi tre dischi, quelli sino a quel momento pubblicati. Con la Virgin durarono lo spazio di due album, poi la pazienza degli art director della label si esaurì, sbriciolandosi definitivamente contro la copertina di Sweet Sixteen, un intruglio di schifezze traboccanti dalla tazza di un cesso, foto per nulla bilanciata dallo scatto sul retro: il broncio eterno e bellissimo di Jennifer Herrema che per una volta, una volta sola nella vita, guarda dritta in camera.
Di Accelerator mi piace tutto: dal font utilizzato per logo del gruppo e titolo del disco in alto, ai colori della copertina con quel suo disegno strambo e in realtà molto piu 70’s che 80’s, ai violini ubriachi che aprono Yellow Kid, al fatto che sia tutto così stonato e al tempo stesso così perfettamente armonico. Un disco che riesce a trasmettere contemporaneamente l’amarezza della sconfitta e il gusto perfido della rivincita nel momento esatto in cui Neil Hagerty suona la sua versione di Exile on Main Street facendo finalmente capire che sta effettivamente suonando le canzoni degli Stones e non processando l’ennesimo tentativo di stupro su qualche mostruoso esperimento di laboratorio. Solo che queste canzoni le suona come fosse un ubriaco con in mente il ricordo dei Pussy Galore e al fianco una splendida bambolina tossica. Forse per questo suona tanto bene. E tanto mio.

I Royal Trux li vidi suonare nella mia città l’anno dopo, ai tempi dell’uscita di Veterans of Disorder, titolo perfetto da scolpire sulla lapide che di lì a poco avrebbero posato sulla propria tomba nel momento, per loro stranamente classico, in cui la coppia sciolse allo stesso tempo legame artistico e personale. Suonarono alla vecchia sede dell’Estragon in via Calzoni, ed erano in cinque: due batterie, un basso, la chitarra di Neil Hagerty ed una Jennifer Herrema fermamente decisa a catturare l’attenzione collettiva stando ben attenta a non fare assolutamente nulla. Viso tondo da bimba, con la frangia bionda schiacciata sulla fronte a coprire un paio di rayban fuori epoca, un poncho messicano da cui spuntavano gambe sottilissime fasciate in jeans rigorosamente strappati, ai piedi un paio di incredibili stivali pitonati e appesa alle labbra una sigaretta perennemente accesa. Cantava contemporaneamente in due microfoni. Uno schianto. La sala era mezza vuota ma emotivamente molto coinvolta. Almeno così mi parve. Alle ripetute richieste di bis a fine set Neil Hagerty rispose tornando immediatamente sul palco: senza degnare il pubblico di uno sguardo staccò il jack dal microfono e cominciò a smontare gli strumenti, da solo.

Arturo Compagnoni

Questo pezzo, come tutti quelli che state leggendo in questi giorni, sarà pubblicato su carta nel numero speciale della fanzine No Hope, distribuito in occasione del No Glucose Festival il 21 e 22 maggio al Mikasa.


The Clever Square live @ No Glucose – 21.05.15


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