“Non ho tempo di registrartelo” – disse Gabri (anzi “Gabbri” perché dalle nostre parti di raddoppia tutto il raddoppiabile) mentre mi passava la sua copia di Warehouse: Songs And Stories degli Hüsker Dü- “Ma tu questo disco lo devi ascoltare! Te lo presto così lo porti a casa, lo ascolti e se ti piace te lo metti su cassetta“.
Presi dalle sue mani quel doppio LP e iniziai subito a contemplarne la copertina stranissima: un giardino ricostruito al chiuso e fotografato sotto una luce livida e artificiale. Non riuscivo a capire che cosa volessero dire quelle immagini, cosa potessero racchiudere in termini musicali e soprattutto non potevo prevedere quello che le canzoni di quel disco avrebbero significato per me negli anni a venire.
Fu così che nacque il mio rapporto con uno degli album che mi avrebbero definitivamente cambiato la vita.
Era il 1987 e avevo 15 anni. Le mie visite a casa sua erano rarissime, ma Gabbri era forse l’unica saltuaria guida che avevo per addentrarmi nel mondo che da un paio di anni stavo faticosamente cercando di esplorare, ovvero quello del rock indipendente o meglio underground: un mondo pieno di misteri, rituali oscuri e suoni così eccitanti da star male. Erano cose completamente lontane dalla realtà del piccolo paese della costa adriatica nel quale consumavo la mia adolescenza. Eppure non c’era nulla che mi facesse sentire così a casa come quei dischi, quelle canzoni, quelle urla, quei rumori che sembravano senza senso a chiunque mi circondasse. Mi sembrava che il mio posto fosse lì, in una specie di iperspazio dove le persone come me, che si sentivano “out of step with the world” potevano trovare asilo. Quelle facce che mi fissavano dalle copertine dei dischi mi rassicuravano sul fatto che non fossi solo, che altre persone al mondo provavano, dicevano e pensavano cose che li tagliavano fuori dal grosso dei loro simili e nonostante tutto lanciavano segnali di vita e si facevano sentire: arrotolavano messaggi musicali in bottiglie di vinile e cartone senza aspettarsi nessun soccorso, nessuna salvezza, ma solo il contatto con altri naufraghi alla deriva come loro nel mare di plastica degli anni ‘80. Quei dischi non se li cagava nessuno per gli stessi motivi per cui nessuno si cagava me e il modo in cui ero fatto. Un cane dello spazio sotto un cielo liquido: era normale sentirsi così per me, ed è ancora così che mi sento la maggior parte del tempo.
Sapevo però che solo con la musica, con quella musica in particolare, potevo avere un dialogo, perché chi aveva fatto quei dischi sapeva di cosa stavamo parlando: WHAT WE DO IS SECRET, SECRET! e pensavo che sarebbe stato per sempre così. Tutto sommato, ripensandoci dopo tanti anni di sottoesposizione e poi di sovraesposizione di questa musica e di questo mondo forse avevo ragione, nella mia ingenuità.
Me ne tornai a casa senza riuscire a staccare gli occhi da quella copertina. Volai dentro l’ufficio di mio padre, dove facevo i compiti e dove era collocato l’unico giradischi di casa.
Lo misi su e iniziai a tirare fuori dallo zaino il vocabolario e il libro di greco. Ancora un’altra cazzo di versione, ancora un altro pomeriggio di sole piegato sui libri. Ma c’era un disco nuovo da ascoltare, un disco che avevo bramato, desiderato per mesi.
Ovviamente avevo già sentito parlare degli Hüsker Dü, ne avevo letto su quelle riviste dai nomi strani che puntualmente causavano imbarazzo con gli edicolanti di paese: Rockerilla, Il Mucchio Selvaggio, gli unici dispacci da quell’iperspazio di cui dicevo prima. Le recensioni e gli articoli avevano acceso le mie più febbrili aspettative nei loro confronti. Tuttavia quel primo ascolto non mi colpì molto, non so perché. All’epoca si lavorava molto di immaginazione: leggevi un articolo e per mesi, a volte anni se vivevi in un posto simile al mio, non potevi far altro che fantasticare di quella band e di quei dischi. A quell’epoca nella mia mente ho ascoltato migliaia di album e sono andato a concerti che avrei avuto la possibilità di vedere e sentire realmente solo anni, se non decenni, dopo. A volta capitava che, un po’ come succede con le prime esperienze con il sesso, il confronto con la “cosa reale” fosse diverso dalle aspettative: questo non voleva dire che il disco o il concerto non mi piacesse, o che fosse meglio o peggio di quello che avevo immaginato, era solo che l’esperienza emotiva che avevo già vissuto per così tanto tempo aveva avuto connotati diversi. Mi sarebbe successo ancora con alcuni di quelli che sarebbero poi entrati nel novero dei miei album preferiti di sempre come Marquee Moon dei Television o The Velvet Underground & Nico. Per fortuna a quei tempi ai dischi si davano sempre molte chance. Del resto quello degli Hüsker Dü era l’unico disco che avrei avuto a disposizione nelle settimane successive, per questioni economiche e di reperibilità di materia prima diciamo, ed era un disco importante, cazzo: bisognava capire bene di cosa si trattava. E allora ci riprovai, per altri pomeriggi di sole passati sull’aoristo e sul neutro, senza troppi risultati sia dal punto di vista scolastico che musicale. Finché un giorno…LA FOLGORAZIONE! Stavo mettendo a posto i libri, mestamente arrampicato su una sedia, quando l’intro di Ice Cold Ice mi colpì come una martellata sulla fronte. Come avevo fatto a non capirlo subito? Questo era il disco che stavo aspettando, il disco che descriveva esattamente come mi sentivo e quello che confusamente desideravo nel modo in cui avrei sempre voluto, cioè alla massima velocità e potenza possibile. Piazzai la puntina nuovamente sul primo brano: These Important Years. Questi sono i tuoi anni importanti, la tua vita. Diari pieni di autografi di amici che avresti potuto avere. Dov’erano quelle persone? Erano loro, erano Bob Mould e Grant Hart, quei punk rocker improbabili, dall’aspetto assolutamente normale proprio come il mio, ma che parlavano con sincerità, abbandono e trasporto, che racchiudevano le loro emozioni più profonde in proiettili punk hardcore incredibilmente melodici e strazianti. Esattamente come me inadeguati in qualsiasi contesto e a differenza del sottoscritto perfettamente in grado di far sentire la propria voce a chi condivideva la loro sensibilità. Una sensibilità che non poteva far altro che consegnarti alle schiere dei reietti: trying to fly away might have been your first mistake. Lo spazio a mia disposizione è poco e non è il caso che passi in rassegna i brani di uno dei più bei dischi della storia del rock sul quale tanto è stato già scritto: voglio solo cercare di esprimere quanto necessaria fosse questo tipo di resistenza musicale (è solo così che riesco a descriverla) all’epoca e in quel clima culturale. Era fondamentale che qualcuno ci dicesse che non eravamo pazzi, che se stavi male e se non te ne fregava un cazzo di metterti il Moncler, di sorridere, di andare in palestra e di ascoltare i Simply Red o Madonna non era perché eri sempre e comunque tu il problema. Era fondamentale che qualcuno urlasse che non era importante essere un vincente nella vita, che non c’era bisogno di abbracciare quella visione competitiva dell’esistenza che stavano cercando di venderci. Non dovevi essere per forza Rocky Balboa e neppure Ivan Drago. Erano loro, i Reagan, le Thatcher, i Craxi con i loro Berlusconi in provetta, tutti quei bastardi di merda che stavano preparando il terreno per la devastazione culturale che sarebbe arrivata dopo, senza incontrare più alcun ostacolo. Vedete ora si parla con nostalgia degli anni ‘80, beh lasciatevelo dire da chi c’era: gli anni ‘80 erano una merda assoluta. Però noi avevamo un posto dove andare ed era quello dove erano collocati, seppure in punti diversi, gli Hüsker Dü, gli Smiths, i Go-Betweens, i Sonic Youth, gli Screaming Trees, i Replacements, i Fugazi e mille altri: vi posso garantire che quello era un luogo in cui la merda non entrava. Ecco io non ho alcuna nostalgia degli anni ottanta, ma di certo ho nostalgia di quel posto e per me, quando penso a quegli anni così importanti, quel posto somiglia molto al giardino impossibile della copertina di “Warehouse: Songs and Stories”.
PS: dopo qualche settimana tornai a casa di Gabbri per restituirgli il disco. L’avevo registrato in cassetta e mi ero rassegnato all’idea di possederlo solo in quel formato per chissà ancora quanto tempo. Gabbri mi liquidò velocemente: “La sai una cosa? Nel frattempo me lo sono ricomprato in CD e si sente molto meglio! Mi porti diecimila lire con calma e te lo puoi tenere“. Nel frattempo era già arrivato il 1988. Grazie ancora Gabbri.
Ferruccio Quercetti
Questo pezzo, come tutti quelli che state leggendo in questi giorni, sarà pubblicato su carta nel numero speciale della fanzine No Hope, distribuito in occasione del No Glucose Festival il 21 e 22 maggio al Mikasa.
Pueblo People live @ No Glucose – 22.05.15
Qui in streaming il loro nuovo album.