Penso sia difficilissimo suonare post-punk. In primis per il genere: quel “post”, che non sai mai se intendere come superamento o disfacimento; se si propende per la prima accezione, è facile addentrarsi nei labirintici territori della new wave, perdendo di vista il primo termine di paragone, ovvero il punk; se, invece, lo si intende nel secondo modo, si rischia di adottare un’estetica (quella della dark wave o del gothic rock) stigmatizzata e spesso banale. In secondo luogo c’è una difficoltà di ordine storico: bisogna fare i conti con il grande padre della categoria, quel Ian Curtis che, essendo diventato suo malgrado un fenomeno pop di tale portata, proietta la sua ombra lunga a qualsiasi latitudine e viene puntualmente scomodato in paragoni imbarazzanti. Le band che si prendono tale rischio, senza sconfinare nel sottobosco dei generi altri, sono poche e ancor meno quelle realmente valide. Bisogna avere la capacità di inanellare un riff azzeccato dietro l’altro come gli Eagulls nell’omonimo album di esordio, un disco che fila dritto come un treno neanche fosse stato partorito da una band garage. Oppure avere il coraggio di interpretare il genere concedendo molto alla melodia senza snaturare le atmosfere cupe, il caso dei Protomartyr. O ancora essere degli eclettici sperimentatori, camaleontici e originali come i danesi Iceage, abilissimi a contaminare la loro musica con le influenze più disparate (dal country al blues) pur rimanendo coerenti con la personale interpretazione. E che dire delle geometri perfette dei Soft Moon o del carisma degli Ought? Mica male il panorama delle band (post-)post-punk del nostro particolare momento storico. Un’altra formazione che potrebbe rientrare in questo ristretto novero sono i Prinzhorn Dance School, arrivati ormai alla terza prova. La band inglese ha sempre collaborato con la DFA, l’etichetta di James Murphy il cui logo (il disegno di un fulmine che sembra l’infantile imitazione del simbolo dei Power Rangers) mi ricorda quelle feste del liceo in cui si finiva a ballare gli LCD Soundsystem con i bicchieri di carta in mano, ad imitazione dei teen-movie americani, sognando di finire a letto con la bella della classe, ma ritrovandosi a barcollare nel buio del corridoio di casa sperando di non essere sgamati da nessuno. Fatto sta che la label newyorkese ha intrapreso da sempre un’operazione filologica sulla musica dance e, benché James Murphy e soci siano scomparsi dai nostri radar, sembra che l’intento rimanga immutato. Infatti il duo di Portsmouth si distingue per l’abilità nel rivisitare le influenze art-punk (Wire e Pil su tutti) in chiave neoromantica. Sia nel primo disco omonimo che nel secondo (Clay Class del 2012) si avverte, nelle scarnificate composizioni post-punk, la mediazione dello spirito edonista del dancefloor. Staremo a vedere se anche in Home Economics, in uscita il 9 giugno, vincerà l’anima dance o quella più prettamente minimalista (il primo estratto Reign sembra confermare le attese di una felice sintesi). Per palati più fini, e dunque anche con più alto quoziente di rischio, è invece la proposta degli Algiers, terzetto americano con disco di debutto in uscita per Matador Records. La formula adottata dalla band di Atlanta ha del particolare: unire cupe ritmiche con il cantato soul /gospel del cantante afroamericano, addirittura facendo a meno della batteria. Ne viene fuori qualcosa di viaggia fra funk e cupo incubo metropolitano (fra l’altro i testi, infarciti di riferimenti colti, trattano tematiche sociali e politiche). Questa formula sarà vincente o alla lunga risulterà stucchevole? A mio giudizio la freschezza degli elementi messi in campo per ora ha prodotto un esito positivo. Insomma questo sfuggente post-punk, per essere un genere che ha avuto il suo picco massimo nel quadriennio che va dal 1978 al 1981, gode comunque di ottima salute.
ALGIERS – Blood
Come dicevo gli Algiers puntano sulla fusione a freddo fra cantato black e ritmiche crepuscolari, ne viene fuori uno stile capace di tracciare un ritratto oscuro della nostra società. Le liriche impegnate, con piglio cantautorale, tentano di mettere in luce le molteplici idiosincrasie del nostro Occidente.
FUFANU – Circus Life
A quanto pare il clima gelido aiuta le band a raffreddare le architetture sonore. Dopo gli Iceage ecco un altro gruppo che proviene dal profondo Nord; ma stavolta non si tratta della Scandinavia, bensì della piccola Islanda, che tante gioie dona alla musica. I Fufanu per ora hanno pubblicato solo un singolo e si preparano a rilasciare un ep. La loro musica vede una ripresa filologica degli stilemi del post-punk dilatati in un’atmosfera etera. Sembra che i ragazzi perseguano l’ideale della rarefazione, come le sconfinate steppe islandesi, ma che dentro covino il vapore bollente dei geyser. Vedremo se in futuro avverrà l’eruzione.
WIRE – Blogging
I Wire non hanno bisogno di presentazioni. A due anni di distanza dal loro ultimo album ritornano in pista con lavoro dal titolo omonimo. Il loro stile inimitabile, nonostante la carriera pluridecennale, sembra reggere bene le intemperie del tempo. Forse questo disco non aggiungerà ne toglierà niente al loro percorso artistico, ma è comunque un bel sentire e soprattutto ci da la possibilità di vederli nuovamente calcare il palco. Segnatevi la data: 30 luglio, Bologna. Nel frattempo godeteveli, questo è il primo pezzo in tracklist.
THE FALL – Auto Chip
Quando sto procrastinando qualcosa che assume i contorni dell’incombenza, penso sempre al faccione di Mark E. Smith che, con aria fra l’annoiato e il collerico, redarguisce i suoi musicisti. Subito dopo corro a fare quello che dovrei fare. Per la trentunesima volta la brigata dei Fall incide su disco gli sproloqui del loro, dispotico quanto geniale, leader. Sub-lingual tablet (complimenti per il titolo) aggiunge l’ennesima perla alla già sterminata discografia, questo ne è un (torrenziale) estratto.
SLEAFORD MODS – No Ones Bothered
Ok qui siamo nel campo delle ipotesi. E’ arduo inserire un gruppo hip hop in un discorso sul post-punk. Tuttavia abbiamo imparato ad apprezzare gli Sleaford Mods proprio per il loro sound particolare, che si situa in maniera equidistante fra il rap alla The Streets e la violenza verbale dei Fall. Le basi scarne di Fearn e lo scazzo perenne di Williamson non rimandano forse all’universo british evocato dal già citato Smith? Io penso di sì. Questo è il primo estratto da Key Markets, album di prossima uscita. Per capire l’aria che tira basta rifarsi alle ultime dichiarazioni di Williamson: «Il Key Markets era un grande supermercato che è rimasto nel centro di Grantham dai primi anni Settanta fino agli Ottanta, mia madre mi portava là e mi comprava una coca cola in un bicchiere di plastica arancione. Il disco è stato registrato in vari momenti tra l’estate del 2014 e ottobre dello stesso anno. Abbiamo lavorato velocemente come facciamo di solito, il metodo è stato lo stesso utilizzato per gli altri album, e il suono si è evoluto di conseguenza. Key Markets è abbastanza astratto in certi punti, ma ha sempre molto a che fare col disorientamento legato alla vita moderna». Una volta ho accompagnato un amico all’ufficio collocamento: sui sedili in simil-plastica attendeva il proprio turno una serie di volti che raccontavano di una classe media impoverita e stremata. Le stesse storie di strada che ritrovo nella musica degli Sleaford Mods.
Giovanni Bitetto