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Un racconto in tre Fiver di Fabio (prima parte)
soggetto: Rebecca
colonna sonora: Dario

Sono proprio in una situazione dimmerda perché non posso rifiutare e non posso ricambiare. Posso solo buttar giù un altro stronzissimo verme che mi comincia a mangiare lo stomaco da dentro e sorridere a Steb: «al grande Steb!» alzo il bicchiere giallo al cielo e ingoio ad occhi chiusi aspettando di cadere per terra svenuto. Steb risponde al mio brindisi con uno sguardo di odio mentre Goldie adesso indossa una camicia bianca e un gonnellino a pieghe nere, parigine chiare con due righe grigie appena sotto il ginocchio e scarpe basse, una divisa da College si direbbe che quando cazzo mai se la sarà messa? Goldie è in mezzo alla sala che balla da sola quel pezzo lento di cui si intuisce solo il basso e la batteria pettinata e fra me e Steb non c’è che uno sgabello vuoto e il suo sguardo di morte.

Cazzo, mi ammezzerebbe adesso se potesse e in realtà può perché chi mi verrebbe in soccorso? Il polipo gigante, che parla con lui una lingua che non sembra neanche terrestre?

Goldie balla al centro del pavimento a scacchi, la gonna nera che oscilla lenta e mi guarda e scivola con le mani su quelle gambe che vorrei solo mordere fino a staccarne la pelle.

Steb è sempre più rosso di rabbia, sembra un crostaceo. È un cristo di granchio gigante, un astice, un gamberone, un coso orrendo che cambia facendo sbattere chele enormi sopra la testa e io non riesco ad alzarmi dallo sgabello non mi posso più muovere e credo che sia veramente la fine. Adesso mi staccherà la testa con la merdosa chela e poi mi succhierà il cervello con quel becco di aragosta.

Sto per morire.

Chiudo gli occhi.

Poi la porta con un botto si spalanca e dalla tempesta fuori entra una bionda, un metro e mezzo di gambe nude, occhi da gatta e il grembiulino da cameriera, unico pezzo di stoffa a coprirle le cosce. Attraversa il corridoio come su una passerella di Victoria’s Secrets fra tuoni che la porta ancora aperta non riesce a tener fuori e fuochi d’artificio ad ogni passo.

S’infila agile sotto al pass del bar e corre incontro al gigante che adesso ha un sacco di spazio attorno lì dietro – ma com’è possibile che sto posto cambia, i vestiti cambiano, le persone cambiano? Mi guardo allo specchio e controllo il riflesso: sono sempre io. Che non so chi è, ma almeno è la stessa faccia di quando sono entrato – e gli stampa un bacio sulla fronte. Lui risponde con un grugnito all’indirizzo di Steb che ride sbattendo rumorosamente chele e baffi che sembrano di ferro.

La bionda lo vede, Steb ride eccitato, lei si siede sul bancone e sul culo di marmo fa fare il giro a quel chilometro di gambe in All Star basse rosa che quasi mi colpiscono dritto in faccia. Mi scanso e lei non sembra curarsi minimamente di avermi quasi preso a calci il naso e butta le braccia al collo di Steb che risponde stringendole il culo, quel culo che neanche se lo disegni viene fuori così perfetto. Lo stringe con una mano, una chela, cazzo è  quella roba e le morde il collo mentre lei ride divina bellezza in questo cazzo di delirio.

Non ci posso credere, eppure tutto questo mi sta succedendo davanti alla faccia e allora mi volto e Goldie è seduta con le sue calze bianche con la riga sotto al ginocchio sullo sgabello alla mia destra e fissa Steb. E butta giù un’altra vodka liscia e si riempie subito il bicchiere.

Il centone è ancora sul banco e Steb mi fissa da dietro i capelli della bionda che nel frattempo è diventata una coniglietta di Playboy con tanto di orecchione di paillettes. Guarda me e poi il bicchiere vuoto e fa un cenno al polipo che intanto sta asciugando i boccali lavati. Il gigante risponde con un sorriso e mi versa l’ennesimo shot. Questa volta niente verme. Lo ringrazio e sollevo il bicchierino verso Steb. Lui continua a massaggiare la chiappa della cameriera che si struscia come una gattina sul suo completo nero – è di nuovo il maledetto pinguino di batman – e si fa le unghie sulla cravatta.

Poi sulla testa di manidipolipo appare una campana grande come quelle dei campanili delle chiese medievali e lui si attacca con tutto il suo peso alla corda che pende dall’alto. Tre tiri e rilascia e il gong è così potente che i vetri dietro di me esplodono, io mi sento spostare e cadere dallo sgabello, Steb mi prende al volo e sento il suo alito fetido da sigaro e gintonic e acciughe: «ultimo giro, straniero. Poi, con me!». Mi rimette seduto con una spinta e riprende il massaggio alle natiche perfette della gattina bionda.

Raccolgo la giacca di pelle dallo sgabello e faccio per salutare. Steb mi prende la mano sinistra: «tu accompagni la mia signora e me nel prossimo locale» dice un secondo prima di infilare mezzo metro di lingua in gola alla bionda che risponde: «ehi, appena stacco vi raggiungo, non divertitevi troppo senza di me» e ondeggia con quel culo che potresti impazzirci solo a guardarlo.

Si va al Kadlie’s Bar. Mentre Steb si alza, Goldie mi precede. Va verso l’uscita, mi fa cenno di passare. Poi muove lei il primo passo: ci troviamo di colpo incastrati nello spazio della porta aperta. Lei si avvicina, si avvicina così tanto con le labbra alle mie che sento il suo cuore vibrare sotto la pelle liscia e bianca come la neve. Con gli occhi mi lancia una promessa che brucia già nel fondo dello stomaco, che fa vibrare la pancia e tutto il resto.

I battenti del Kadlie’s si spalancano su noi tre e la musica ci investe come un camion di cassa in quattro e luci stroboscopiche. Ma dove cazzo sono finito?

La sala è piena di fumo di sigarette e nebbia che un dj impazzito, Borsalino e occhiali da sole, fa sputare alla fog machine di fianco alla consolle. Vedo muoversi corpi che non riesco a capire se sono uomini, donne o cosa.

Le cameriere si mettono ad urlare neanche fosse entrato Mick Jagger e ovviamente tutte quelle grida non sono rivolte a me: dieci secondi e Steb è ricoperto dalle ragazze che sembrano non aspettare altro. Dieci secondi e al posto di Steb c’è un groviglio di tette e culi che vogliono solo togliersi quei pochi centimetri di stoffa e farsi mordere dalla bocca di quel vecchio bavoso. Steb risponde infilando nel cordoncino dei tanga banconote da cento come se questa fosse l’ultima notte della storia del mondo.

Cerco Goldie nella nebbia e riconosco il suo profilo – ora è fasciata in una tuta di vinile nero, stivali col risvolto sotto al ginocchio, di nuovo tacco a stiletto – già al bancone, già un bicchiere in mano, già quella che scommetterei la vita sia vodka nella bocca.

Faccio un passo verso di lei, ma Steb mi ha già letteralmente lanciato addosso una mora con gli occhi blu che mentre balla su di me diventa una coniglietta, poi mi abbraccia e mi usa  come un palo da lap dance e diventa una gattina nera che si struscia fra le gambe.

Se al bancone non ci fossero le labbra di fuoco di Goldie resterei qui, attaccato al culo in tanga nero che adesso scivola appoggiato al mio bacino. Lei sente che io mi sto spostando, si volta, mi guarda e capisce che sto andando via. E’ di nuovo una gatta nera e mi graffia un braccio che non comincia a grondare sangue solo grazie al chiodo di pelle spessa. Tagliato, quattro graffi in diagonale, la gattina che adesso è tornata sculettando da Steb e lecca l’orecchio di una bionda.

Ma io voglio le labbra di Goldie, voglio prendermi quello che mi ha promesso scopandomi  con gli occhi mentre uscivamo dal bar del cazzo di polipo.

Sono al banco. Bevo vodka che non ho ordinato nel fumo con lei. Ci fissiamo senza mai abbassare lo sguardo. Posso leggere nei suoi attorno alle sue pupille il sangue di mille notti di fuoco.

Mi chiede di nuovo d’accendere e tiro fuori dalla tasca l’accendino che è diventato una scatola di fiammiferi. Ne accendo uno e l’avvicino alla sigaretta. Goldie mi prende il polso e lo stringe e rimaniamo fermi fissandoci negli occhi mentre il cerino mi incendia indice e pollice ma io non batto ciglio, non chiudo gli occhi, non soffio sulle dita, non cerco nemmeno di divincolarmi dalla sua stretta.

Restiamo così ed è sesso ed è il sesso più feroce che abbia mai fatto. Siamo un unica palla di fuoco sul bancone di pietra.

Due mani mi coprono gli occhi. Una voce che non ricordo mi sussurra nell’orecchio con il timbro più sexy che abbia mai sentito: «Ehi cowboy, ti ricordi di me?» e sono le labbra rosa di Betty, la cameriera del bar di polipo-cazzo-di-mostro-gigante. E, di fianco a lei, la sua fotocopia: stesso sguardo e stesse mani che però s’infilano direttamente una sotto la camicia, l’altra a slacciare la cintura dei jeans.

Sono stanco e ubriaco, la testa pesante e quelle due paia di mani mi trascinano verso la pista. Non riesco ad opporre resistenza, non riesco a rimanere al banco anche se voglio la bocca rosso sangue di Goldie, ma Betti e Betti2 ballano una davanti ed una dietro di me e infilano a turno la loro lingua nella mia bocca e le loro mani sotto i miei pantaloni e io non riesco più a controllarmi ed in ogni angolo di questo cazzo di posto pare ci sia un’orgia e non vedo più Steb né Goldie e adesso ballo o forse scopo Betty o Betty2 contro il muro mentre l’altra mi morde il collo e mi graffia la pancia da dietro. E poi si cambiano e sono urla da felino che lotta.

Ma vedo Goldie. Di nuovo al bancone e mi fissa. In mezzo al fumo, al caos di corpi che si avvinghiano, si staccano, si voltano e ricominciano, diventano animali, scompaiono nei muri. Vedo lei e lei vede me.

Mi stacco dalle unghie delle due Betti e barcollo verso il bancone. Un drink rosa in mano. Non l’avevo un secondo fa. Il bar si muove slow motion. La pista è vuota. Steb sembra sparito e con lui buona parte delle cameriere e Goldie si sta accendendo un’ennesima sigaretta da un braccio teso dal bancone e vedo il fumo che esce da quelle labbra. Cazzo, quelle labbra. Devo avere quelle maledette labbra e ormai sono ad un passo da lei e questa volta non la guarderò, non le dirò niente: la prenderò semplicemente buttandola sul bancone e me la scoperò mentre lecco la sua bocca d’inferno.

«Mi chiamo Ginkgo»

«Cosa?»

«Ho detto: mi chiamo Ginkgo»

«Cosa?»

il locale è vuoto. Le luci alte. Il barista è un jack russel isterico che lava i bicchieri con la lingua e scodinzola.

«Ma che è successo? Dov’è Goldie?»

«Chi?»

«Goldie, Steb, dove cazzo sono tutti?»

«Amico sei fatto duro» e ride e si mette a rincorrere impazzito una pallina che rimbalza in mezzo alla pista al centro della pista sulla stessa verticale e Ginkgo salta e salta sempre più folle cercando di prendere la pallina che lenta continua a cadere con un rumore che mi spacca i timpani come un martello che frantuma vasi di porcellana.

«Che cazzo ci faccio qui, cane del cazzo?!»

Tutto si ferma. La palla a mezz’aria, il cane che salta. Poi lui è sul banco. Stesso muso ma corpo di uomo. Lecca i bicchieri ed è carta vetrata nelle mie orecchie: «Sei fattooooo durooooo!» e ride e lecca e mi tocco l’orecchio e c’è sangue e non vedo Goldie non vedo quello schifo di Steb e la gattina bionda e sono su questo sgabello che sale sale e il cane adesso è un cane che salta e cerca di mordermi i piedi e vorrei alzare le gambe ma non ci riesco non ci riesco e riparte la musica nelle orecchie un basso che entra nella pancia e lo sgabello sale e adesso sono a venti metri da terra e il cane, piccolissimo laggiù, salta e abbaia e grida e diventa Goldie e Steb e la bionda e poi me e salta e cade e guaisce poi torna a saltare e io comincio a ricordare ma forse è un sogno un acido e sono Giulia. Chi è Giulia? E perché sono qui? Qui dove?

Allargo le braccia. Sarò al decimo piano di un palazzo vuoto. Tutto intorno bianco lattiginoso. Sorrido. Mi lascio cadere indietro. Cado e continuo a cadere e credo che cadrò per sempre.

Fabio Rodda

(appuntamento a mercoledì 07 ottobre per la terza e ultima parte)


Una replica a “Mosche, muli, asine e cuori – parte seconda (Fiver #37.2015)”

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