SanSebastian_2005_12_050_2

Un racconto in tre Fiver di Fabio
soggetto: Rebecca
colonna sonora: Dario

Parte prima: David Lynch in Donostia

Non lo so che cavolo ci faccio davanti alla porta di quel bar. Non so perché sono lì, né da dove vengo. In realtà ho solo un gran mal di testa e tanta voglia di bere.
Un lampo alle mie spalle e la vetrina diventa uno specchio: mi guarda dal vetro un tizio che non sono sicuro di essere io: un giubbotto di pelle nera, jeans a sigaretta e stivali. Neri. Cazzo, sono tutto nero. I capelli spettinati, mossi e crespi per l’umidità che sta gonfiando l’aria: tra poco arriverà un temporale.
Il vetro torna trasparente e dentro una distesa di scacchi bianchi e neri.
Altro lampo. Ho un borsone di cuoio sulla spalla. I capelli carichi di elettricità sono grigi ai lati. Mi vedo come un supereroe della Marvell. Ma chi diavolo sono?
Ancora un flash sulla strada buia. Due gocce grosse come uova mi cadono sulla spalla. Guardo la mia borsa di pelle scura e spingo la porta.
Sono nel locale.
Vuoto.

LA HELL GANG – Inside my Fall

Dal fondo sento salutare in una lingua che non conosco, mi avvicino al bancone dove un enorme uomo sta versando Mezcal in un bicchiere sudicio. Mi fa cenno col capo di sedermi e a me non sembra sia il caso di fare tante storie. Un cazzo di verme galleggia nel centro del bicchiere. Il gigante, gobbo dietro ad un bancone così piccolo che è impossibile che lui riesca a starci, spinge il bicchiere verso di me con la mano destra. Che non è una mano. Al posto della cazzo di mano ha un cazzo di polipo. Dei tentacoli. Cinque tentacoli come fossero dita che si muovono come tentacoli e sembrano andare dove vogliono quando lui non ordina loro di fare qualcosa.
Guardo la faccia dell’uomo con i tentacoli al posto delle dita e il verme non fa più così schifo.
Butto giù in un sorso verme, alcol bruciabudella e qualunque altra cosa contenga quel bicchiere sudicio. Occhi chiusi che non voglio vedere cosa mi sta cuocendo lo stomaco.
Mi si stringe la gola, si appanna la vista. Il gigante appoggia anche l’altra mano sul bancone. L’altra mano che non è una mano. Anche lì dei tentacoli. Mi fissa. Riesco a non tossire.
Sono solo nel bar, lampadari di piume tondi illuminano di un giallo fioco il bancone di marmo bianco. La base nera. Più in là ancora pavimento a scacchi e divanetti di pelle rossa, tavoli di velluto, rosso anch’esso. Rosso sangue. Quasi nero. Lampade dal paralume antico ed ingiallito su ogni tavolino.
Non tossire. Non lacrimare. Resisti.

THE GROWLERS – What It Is

Il polipo mi fissa negli occhi e allora mi accorgo che anche il cazzo di muso sa di mollusco: un naso solo accennato e dalla pelle del mento piccole escrescenze che da lontano potrebbero sembrare barba, ma da dove vedo io non lo sono.
Il polipo, senza dire niente, mi versa un altro intruglio con un altro stramaledetto verme nello stesso bicchiere, ora più sudicio di prima.
Distolgo lo sguardo dal movimento orribile di quelle dita/tentacoli e cazzo, «sono pure vegetariano», mi sento sussurrare. Non lo sapevo. E comunque, rimango convinto che non sia il caso di andare troppo per il sottile e protestare.
Il polipo dice qualcosa nella stessa lingua che non capisco di prima, o almeno sembra la stessa. Chiudo gli occhi e butto giù. Questa volta fa più male di prima e stringo gli occhi, stringo la gola, stringo il bicchiere, stringo anche il culo e lascio che le fiamme dell’inferno escano dai denti stretti in un ghigno di dolore che spero il gigante non stia guardando.

FAT WHITE FAMILY – Auto Neutron

Riapro gli occhi, un girotondo di luci e sono di nuovo al bancone. Mi sento leggero, galleggio sopra il poggiaculo sotto di me. Il barista si è spostato di mezzo metro alla mia sinistra. Mi giro e, cristo, allo sgabello di fianco c’è seduta una rossa che neanche a disegnarla, anzi, solo a disegnarla: Jessica Rabbit mi sorride da mezzo metro, appoggiata con le braccia sottili al bancone. O, almeno, sarebbe Jessica Rabbit se fossimo in quel cazzo di film con il coniglio sempre strafatto di speed e i suoi amici acidi.
Di fianco a lei un ciccione uguale ad Eddie Valiant, per restare in tema. I piedi a ciondolare dallo sgabello. In una mano stringe un sigaro più grande della sua faccia e con l’altra liscia la coscia nuda di Jessica lasciandole, ad ogni passaggio, pesanti autostrade rosse con il suo anello d’oro.
Forse siamo davvero in quel cazzo di film.
«Vado a pisciare bambina», gli sento dire mentre le da una pacca sul culo: «vedi di non fare la puttanella, eh?!» e scende tenendosi al tondo di vinile come se stesse scalando una parete di roccia. Ride gorgogliando mentre cammina storto verso il cesso.

KING GIZZARD – I’m in your mind

Lei si volta verso di me. Mi fissa e mi sorride: «hai d’accendere straniero?» e infila fra due labbra che neanche in un sogno una lunga sigaretta sottile. Il filtro subito macchiato dal rossetto di un rosso fuoco come il vestito da sera. Come le scarpe col tacco a stiletto. Il muro alle sue spalle è di mille colori rossoviolabluacido qualcuno sta facendo le proiezioni o io sono strafatto ma soprattutto continuo a non sapere dove sono e soprattutto. Chi. Cazzo. Sono.
Sul palco una band indemoniata suona -chissà da quanto stanno suonando?- e sotto gente che poga e poga e poga e poga e hanno facce di coniglio e gatto e cazzo sono dei conigli, dei gatti, no un cane, un isterico cane che si chiama Bill, lo so, non so perché lo so ma Bill morde tutti e tutti sanguinano e continuano a pogare.
Il barista guarda tutta la scena con l’aria del killer a pagamento che sta aspettando di trovarsi solo col suo appuntamento. Io tiro fuori l’accendino che non sapevo di avere in tasca – fumo? – e lo avvicino alla punta della sigaretta. Non dico nulla, cerco di non far tremare la mano e prego che il nano del cazzo non esca ora dal bagno.
Non si chiama Jessica, si chiama Goldie, o almeno così si fa chiamare.
Ha un accento russo da far paura, ingoia qualsiasi coniugazione e insieme a quelle litri di vodka come acqua naturale. Ordina al polipo altra vodka e un bicchiere in più. Prego che non esca dal cesso quel cazzo di. Lei versa. Butto giù. Non posso non buttare giù. Non posso non fissarla. Mi parla così vicina alle labbra che sento l’odore del suo rossetto, mischiato alla vodka, che posso sfiorare la sua bocca se solo provo ad aprire la mia. Parla attaccata alle mie labbra, così vicino che riesco a sentire il suo alito caldo carico di alcol.

Non so di cosa parla la rossa perché mi guarda e io la guardo e con gli occhi ci diciamo quello che vogliamo fare l’uno all’altra. Nei dettagli. Il polipo si avvicina al banco ma non me ne frega più un cazzo: altre due vodke e quelle labbra e niente ha più importanza.
La porta del bagno sbatte e il nano esce dal cesso alzando la patta dei pantaloni. Ci voltiamo verso di lui che si sciacqua le mani in un silenzio irreale. Il palco è vuoto. Buio. La pista deserta. Un uomo con chele da granchio passa uno straccio inutile su macchie di sangue che colorano il pavimento. Il nano tossisce ancora e si volta verso di noi: adesso è Danny De Vito in Batman, il Pinguino.
Cazzo, è cambiato mentre era in bagno, com’è possibile che non se ne sia accorto nessuno? Cerco una risposta negli occhi del polipo a cui, nel frattempo, sono cresciute le escrescenze sotto al mento che ora sembrano una barba a treccine da bassista crossover del cazzo.
Goldie butta giù in un sorso l’ennesima vodka. Danny si siede senza sforzo sullo sgabello da bancone e mi guarda come ti può guardare uno che non sai se ti sta minacciando di morte o se ti sta invitando a farti un giro sulla sua fuoriserie, giusto per fartela volere ancora di più, mentre sai che la può avere solo lui.
Goldie ci presenta. Non si chiama Danny né Eddie ma Esteban. Esteban viene da Donostia. Non so neanche cos’è. Donostia. Goldie si accende una sigaretta guardano Esteban con aria schifata.
Steb, come lo chiama lei, mi ha letto in faccia tutto quello che penso della sua donna e appoggia un pezzo da cento sul bancone gridando, in una lingua che non conosco, che paga da bere a tutto il locale.
«Grazie al cazzo» mi sento sussurrare: «non c’è un cazzo di nessuno in questa topaia merdosa». Mentre mi esce dalla gola tutto questo cerco di trattenerlo, di ributtarlo giù. Ma esce. Per fortuna ad un volume che nemmeno io riesco a sentire. Eppure Goldie ride sguaiata, forse per qualcos’altro, non può aver sentito e poi parla quella cristo di lingua che non capisco. Steb offre da bere a tutti. Tutti, chi? Io ho in tasca solo qualche moneta: non ci comprerei Goldie neanche se facesse cento chili in più e se al posto di quelle due labbra da impazzire avesse due fili d’erba secca.

*grazie a Giulia Conforto


2 risposte a “Mosche, muli, asine e cuori * parte prima (Fiver #36.2015)”

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