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Un racconto in tre Fiver di Fabio (prima parteseconda parte)
soggetto: Rebecca
colonna sonora: Dario

Domeniche a caso*

«Facciamo i gatti esplosi?»
«Cosa?» mi giro verso la sala vuota. Un pellicano sta spazzando il pavimento. Il cane Ginkgo fissa la palla da baseball galleggiante. «chi ha parlato?»
«Brutta serata, eh?» una voce alle mie spalle.
La sala ruota e il barista è lì, camicia arrotolata sugli avambracci ricoperti di tatuaggi. Barba a punta e la stessa macchia nera attorno all’occhio destro del jack russel. La palla è sempre lì, ferma a a mezz’aria, il cane non c’è più.
«Ma mi dici che cazzo di posto è questo?» ma il bancone è di nuovo deserto.
Chiudo gli occhi. Mi sento stanchissimo. Nello specchio una ragazza minuta, capelli lisci e scuri. Occhi chiusi che dormono. Forse è dietro di me ma perché io non mi vedo riflesso? E perché non vedo lei qui di fianco a me?
Ho così sonno che mi spegnerò qui, sul bancone. Basta appoggiarsi un momento.
Si illumina un vecchio jukebox.

«Facciamo i gatti esplosi? Come i gatti quando scoppiano. Dai, dai, dai…» Ginkgo mi guarda, la testa un po’ storta, di fianco alla palla volante.
«Sei un cristo di cane parlante, adesso?»
Ma io sto dormendo.
«Giulia, hai presente i gatti quando li investi in autostrada e poi stanno lì sotto il sole tutto il giorno? Poi a un certo punto esplodono. Facciamo i gatti esplosi?»
«Chi è Giulia? E come facciamo a fare i gatti esplosi?» ma Ginkgo adesso salta tremante di desiderio verso la palla sempre sospesa. Salta e salta nervoso e guaisce perché la palla è proprio lì, a pochi centimetri dal suo salto più alto. Ma non la può prendere. Ma lui salta e salta e salta e non si arrende e io penso che potrebbe saltare in eterno. Ma la testa è pesante. E nello specchio di fianco a me, stessi capelli sparati, jeans e chiodo nero, c’è di nuovo una ragazza che dorme con la testa appoggiata al banco. Mi volto verso lo sgabello che riempie nello specchio ma non c’è nessuno. C’è solo nello specchio. Una ragazza con lunghi capelli scuri che scivolano dal bancone, un braccio abbandonato lungo il fianco, il destro rovesciato sul legno quasi nero e segnato da anni di sbronze. Ha la pelle chiarissima. Una barchetta sopra tre linee d’onde tatuata sul polso. Giro di nuovo la testa verso lo sgabello. Vuoto. Sento che non riuscirò a stare sveglio ancora a lungo. Ginkgo salta e salta e guaisce una nenia che sembra una ninnananna.

Apro gli occhi e sono in questo bar che non ho mai visto. La testa pesante come se fossi stata ad un rave. Mi giro verso la sala e non c’è nessuno.
«Va meglio?»
La voce del barista che non avevo ancora visto mi fa fare un salto che quasi cado dallo sgabello: «cazzo, sei matto? A momenti mi viene un colpo!»
Il ragazzo è belloccio, una voglia scura attorno ad un occhio, le braccia muscolose e tatuate. Barba rossiccia curata. Un gilet bordeaux su una camicia bianca aperta quel tanto che basta per intuire un cuore sacro inciso proprio sopra lo sterno. Penso a quanto deve fare male.
«Non molto in realtà. Forse meno di quello» e indica il mio braccio destro. Lo giro. Una barchetta che galleggia sulle onde. Un disegno stilizzato. Ho un tatuaggio che non ricordo di aver fatto sul polso.
Ma come ha fatto a sentirmi?
«Non sono mica sordo…».
Ma io non sto parlando.

«Straniero, ma ti sei bevuto il cervello?»
Sono di nuovo seduto sullo sgabello. La ragazza ancora nello specchio che dorme. Di fianco a me nessuno: «dov’è Steb? E Goldie? E tutti gli altri?»
«Se ne sono andati da un pezzo, hanno detto che tu restavi, di lasciarti dormire. E se ne sono andati tutti.»
«E lei chi è?»
«Lei chi?»
Sto parlando con un jack russel che continua a leccare scodinzolando i bicchieri e ad ogni colpo di lingua sento una falciatrice che taglia fette di cervello, brividi che scuotono la schiena e fin dentro lo stomaco. Stringo i pugni e qualcosa brucia sul polso destro. Sollevo la manica graffiata del chiodo e vedo una barca stilizzata sopra tre linee ondulate. Un tatuaggio. Fresco, ancora gonfio. Guardo lo specchio. La ragazza dorme. Il braccio rovesciato. Ha il polso candido come il resto della pelle.
È di nuovo buio.

«Giulia, svegliati, Giulia…»
«Come sai il mio nome?»
«Ma se abbiamo parlato tutta la notte. Giulia, alza la testa.»
Mi sollevo sulle braccia, gli occhi faticano ad aprirsi. Mi vedo sfuocata nello specchio. Mi fa ancora male il polso destro e non ricordo di essermi tatuata eppure ho questa barchetta sul braccio. Mi giro e il tipo sullo sgabello di fianco al mio se la dorme come se fosse nel letto più comodo del mondo. I capelli scuri con delle chiazze grigie ai lati, jeans neri e un chiodo che sembra sia passato tra le zampe di una pantera per i tagli che ha qua e là.
Guardo di nuovo il mio riflesso nel vetro e sono sola al bancone. Il tizio in nero non c’è. Non si riflette. Forse sono seduta di fianco ad un vampiro. Nel riverbero velato, io e la schiena del barman col suo gilet bordeaux e i suoi tatuaggi colorati.
«E di cosa avremmo parlato tutta la notte?»
Sento abbaiare e sotto i miei piedi spunta un jack russel con una chiazza scura attorno ad un occhio.
«Ginkgo! Ginkgo, vieni qua!» e il cagnolino richiamato dal barista scompare dietro al bancone: «Lo so che non dovrebbe stare qua, se lo sa il capo mi ammazza, ma a casa da solo mi spacca tutto…»
Ma dove sono? Cosa ci faccio qui e perché non vedo il tizio che dorme di fianco a me nello specchio? E perché ho una barca tatuata sul polso?

Goldie si muove lentissima, attraversa la sala e viene verso di me. Non riesco a staccarmi dal bancone. Sono incollato allo sgabello, chissà che cazzo mi ha messo il granchio fottuto nei bicchieri tutta la sera e io adesso non riesco ad alzarmi dal bancone. Goldie viene verso di me. La vedo sfumare davanti ai miei occhi mentre cerco di toccarla. Provo a sfiorarla ma è come fosse una nuvola, un fantasma, un cazzo di ologramma ma non riesco a toccarla e lei mi parla ma non capisco cosa dice e tutti nella sala ballano questo pezzo acido lentissimi, come fatti di roba tutti quanti e Steb è scomparso e con lui le gatte impazzite e c’è solo gente che balla, ognuno per conto suo, fuorit empo come uno che dondola un fado ascoltando Dan Deacon e Goldie che mi dice cose che non capisco e non posso toccarla perché si dissolve, scompare e riappare come una proiezione su di una nuvola di fumo.
Alzo la testa dal bancone: «da quanto sto dormendo?»
«Da qualche ora, amico.»
«E tu sei Ginkgo?»
«Sempre io, amico.»
«Non capisco. Non capisco più un cazzo e tu mi devi aiutare. Dove sono? Cosa ci faccio qui e dov’è Goldie e dove Steb e chi cazzo sono io?»
«Stai calmo, amico. Troppe domande per una sola bevuta.»
«Quale bevuta?» E davanti a me ci sono una distesa di bicchierini bianchi con del liquido trasparente dentro e Ginkgo ne prende uno e io un altro e ci tocchiamo le nocche e buttiamo giù. Vodka.
L’orologio sopra il bancone, un enorme orologio che non avevo mai visto segna le tre. Di notte o di giorno?
E poi un altro. E un altro. E un altro.
Le lancette cominciano a girare indietro. È l’una. Le undici. Tutt’intorno le luci si fanno sempre più fioche. Rarefatte. Sembrano lampioni. Forse sono per strada e una voce lontana mi chiede se sono sicura di rimanere ed è una voce che conosco. Alice che mi parla e mi carezza la faccia, ma forse sto solo sognando e certo che sto bene e resto ancora un po’ qui col barista che continua a lavare bicchieri e sorride dal dietro al banco col suo cane che saltella e insegue la palla che butta nel retro. Un ultimo giro, poi me ne vado a casa, tranquilla che lo sai che mi porto sempre a casa, no?
Chi è Alice?
Poi è buio. E dov’è che sono?
«Tu fai troppe domande, ragazza. È una di quelle serate che vanno così, a caso.»

Apro gli occhi. Odore di fresco e pulito. Sono in un letto verde e rosso, un materasso appoggiato a terra che so di conoscere bene. Da una finestra enorme entra tanta luce che riempie la stanza. Sono seduta e mi vedo riflessa in uno specchio. E sono io, Giulia. Ed è ovvio che sia Giulia, chi altro dovrei essere? E nello specchio non c’è nient’altro che la mia faccia un po’ gonfia – abbiamo fatto i gatti esplosi? Me l’ha detto James e fuori il sole stava sorgendo – e sono a casa di James che è il mio amico, il mio amore, quello di cui mi posso fidare sempre perché non sarà mai io tua e tu mio ma sempre noi due che ci vogliamo bene. Qui sono al sicuro. Ma come ci sono arrivata qui, nella stanza con la tappezzeria biancha e gli alberi stilizzati neri che conosco come le mie tasche? Sono nel letto di James, ma lui non c’è. Mi stiro e abbraccio il cuscino che sa di lui, quante volte ho dormito qui? E quanto amo quest’odore che sa sempre di un posto in cui è bello tornare?
Mi alzo. E ho le gambe pesanti come la testa e mi fa male il polso. Destro. Lo guardo. Un tatuaggio appena fatto. Si vede che è fresco. E sono nella camera di James e so che la tappezzeria è la sua e cosa ci faccio qui? Ho sognato? Mi guardo allo specchio che riempie mezza parete. Sono bianca come il muro dietro di me. Due occhiaie che mi fanno somigliare ad un panda mi raccontano di una lunga notte. Di cui non ricordo niente.
Esco. Musica che riempie le orecchie. James è in cucina. Solita divisa, tutto nero. I capelli spettinati e grigi ai lati. La barba quasi bionda, coi suoi riflessi rossi da mezzo irlandese. Le braccia, piene di tatuaggi colorati, fanno saltare qualcosa in una padella larga. C’è odore di uova e caffè. Odore di buono. Cammino scalza sul parquet di casa sua che conosco da tanto tempo e gli arrivo alle spalle. Lo abbraccio e appoggio la testa alla sua schiena: «ma cosa ci faccio qui?»
«Ehi, ci siamo svegliate?»
Stringo il suo petto e mi sento bene, mi sento serena: «mi sa che mi devi fare un resoconto delle ultime ore. Ma, a proposito, tipo, che ora è, anzi, che giorno è?»
James scoppia a ridere e non molla la padella: «ma allora hai veramente esagerato!» e continua a far saltare delle uova strapazzate.

«Quindi ti sono arrivata casa così, a caso, stamattina all’alba…»
«Era ancora buio, bambina…»
Mangiamo uova e beviamo caffè, fuori sembra che il sole stia iniziando a tramontare.
«Dai, ma questo?» e stendo il braccio sul tavolo, il polso destro con la barchetta incisa nella pelle.
«Sei arrivata e hai detto che avevi esagerato. Che un cane pazzo ti faceva scoppiare la faccia, come succede ai gatti quando li investi in autostrada. Io ho riso mezz’ora e ho provato a convincerti ad andare a letto, a spegnere il cervello e smettere di parlare. Ma tu continuavi a dire che non potevi più stare dov’eri e avevi bisogno di una barca per andare via e che solo se io ti avessi tatuato una barca sul polso il sangue si sarebbe calmato e avresti potuto navigare verso dove volevi andare.»

Il mal di testa se né quasi andato. La memoria che comincia a tornare. Sabato sera, la festa di quella marca di lingerie a cui eravamo invitate. Una discoteca piena di modelle mezze nude e papponi da grande azienda. Alice che voleva sbracare e tira fuori dalla tasca un quadratino di carta e mi dice “dai, un trip io e te, come ai vecchi tempi” e poi a notte fonda quel bar assurdo che chissà dov’era e Alice che se ne va e io voglio restare a bere l’ultima. Il barista carino col cane che scappava fuori dal bancone. Tornano immagini della notte.

«Sei arrivata qui che non ci stavi dentro. Le ho provate tutte per calmarti ma non ne volevi sapere. Dovevi tatuarti o sarebbe stato un casino. Mi dicevi che un cane saltava cercando di prendere una palla e che ti chiamavi Goldie. Che avevi mangiato pesce e ti aveva fatto male…»

Il sushi bar, ecco dove eravamo finite con Alice, poi lei se n’era andata col suo ragazzo ciccione che odio e io ero rimasta lì a bere vodka col barista con una voglia attorno all’occhio. Fotografie sparse tornavano come in un album shakerato a caso con troppa droga e troppo alcol.

«Mamma mia, che serata… E quindi, mi hai tatuato il polso?»
«Per forza, non c’era modo di calmarti. Alla fine mi son detto, alla peggio domani si incazza e lo copriamo, ma adesso ha bisogno di quella barca… E te l’ho fatta. Ho pensato che fosse il male minore.»
Ci guardiamo e scoppiamo a ridere. Il mio salvatore che mi tatua strafatta: «sì, è così, non potevo fare altro.»
Salto in braccio a James, un’altra tazza di caffè americano è quello che ci vuole.
Mi sento felice. Mi sento leggera, come una barca che va alla deriva in un mare tranquillo. Come i muri pieni alberi della camera, come la luce che filtra sempre più tenue dalle grandi finestre di questa casa che amo da sempre.
«Appena ho finito di tatuarti hai sorriso. Mi hai chiesto che giorno era. Ti ho detto che era domenica e tu mi hai risposto che tutto era perfetto. Che avevi bisogno di quella barca e che adesso stavi bene. Che ti serviva perché era una di quelle domeniche… aspetta, hai detto… ah sì, hai detto che ti serviva perché era una di quelle domeniche che devi fare qualcosa, che se no sono domeniche a caso.»
«Domeniche come?»
«Domeniche a caso. Hai detto proprio così.»
Scoppiamo a ridere. Beviamo altro caffè e adesso è proprio così: una di quelle domeniche a caso, che all’improvviso diventano importanti.
James mette un disco sul piatto: Melted Rope e mi sorride e mi carezza i capelli e io sono felice. Senza motivo. Solo felice.
Fuori, ormai, le ombre sono lunghissime che quasi scompaiono. Qui, tutto è sicuro e non serve nient’altro.

*thanks Giulietta

Fabio Rodda


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