
Pur coltivando la salda convinzione che la musica migliore prodotta negli ultimi 40 anni in ambito rock sia quella uscita tra gli ultimi spiccioli degli anni ’70 e i primi passi del decennio successivo, non avverto alcuna malinconia per quei tempi che pure ho vissuto in prima persona. Anche perché mi rendo conto che parlare oggi di quell’epoca equivalga, in termini strettamente temporali, a quello che sarebbe stato rievocare l’immediato dopo guerra a inizio anni ’80. Francamente se qualcuno avesse cercato di intavolare con un Arturo allora in età adolescenziale una discussione sugli avvenimenti – musicali e non – della seconda metà degli anni ’40, credo proprio che quell’Arturo non avrebbe provato particolare simpatia né tanto meno interesse (eufemismi entrambi) nei confronti del suo potenziale interlocutore adulto. E non ho intenzione ora di mettermi nei panni di quel “potenziale interlocutore adulto” nei confronti di un qualunque “Arturo” di oggi. In ogni caso non mi mancano quei dischi, non mi mancano quei gruppi, non mi manca lo spirito che accompagnava la musica in quel momento storico passato poi alle cronache col semplice aggettivo post punk. O meglio: certo che mi manca tutto questo, come dovrebbe mancare a chiunque abbia almeno un po’ a cuore la musica, ma per quanto ogni tanto io provi ad evocarla, la nostalgia per il passato proprio non riesce a scalfire il piacere che mi da vivere nel presente.
La nostalgia in sé in effetti è uno di quegli stati d’animo che non si è mai fatto largo tra i miei sentimenti predominanti: di rado mi è balenato il rimpianto per avvenimenti e situazioni, così come quello per gli oggetti. Qualche volta in più quello per le persone. Ciò che veramente mi manca è l’entusiasmo che un tempo provavo, un entusiasmo che inevitabilmente il tempo ha finito per piallare, contribuendo a rendere la vita un po’ più grigia e un po’ più piatta. Un po’ noiosa insomma. Un entusiasmo così intenso da segnare indelebilmente certe situazioni. Per questo probabilmente ricordo tanto bene determinati momenti. Anche quelli che verosimilmente già sulla mia vita di allora ebbero un impatto relativo, impatto reso ancor meno rilevante poi in termini assoluti dagli sviluppi degli anni a venire.
Come la giornata in cui gli Iron Maiden suonarono nella mia città, a fine ottobre ’81.
Quell’anno in un bizzarro melting pot di gusti generato presumibilmente dagli squilibri ormonali di un adolescente che già allora correva appresso più alla musica che alle ragazze, dividevo la mia passione tra la New Wave of British Heavy Metal e la “semplice” New Wave partorita dal post punk. Allora le divisioni tra generi erano piuttosto rigide, niente affatto inquinate da quelle fregole crossover che negli anni ’90 sarebbero state attivate dalle chitarre dei Red Hot Chili Peppers e dai mashup tra Aereosmith e Run DMC. Il mio era dunque un caso piuttosto singolare. Il mio scarso bilanciamento mi portò quell’anno, in maniera spesso solitaria poiché appunto caso raro, tanto sotto i palchi di Clash, Madness e Adam and the Ants quanto sotto quelli di Saxon e Iron Maiden. In particolare quel giorno, il 26 ottobre del 1981, i miei scompensi mi spinsero sotto la cupola del palasport di Piazza Azzarita, dove gli Iron Maiden programmarono la prima data del loro primo tour italiano.
Era il tour del loro secondo album, Killers (per inciso, pur avendo abbandonato il mio personale percorso metal fin da subito, trovo ancor oggi che i primi due 33 giri degli Iron Maiden siano dei signori dischi) e il loro primo concerto in assoluto con Bruce Dickinson al microfono. Paul Di’ Anno, il cantante che con la sua voce blues aveva caratterizzato il suono di quei primi due dischi, era difatti appena stato allontanato dal gruppo causa problemi di droga e alcool. La cosa buffa – ma considerato quanto scritto sopra fortemente significativa – è che del concerto in se non ricordo praticamente nulla, mentre è assolutamente nitida la memoria del pomeriggio che precedette la serata, impiegato in una match di tennis con Massimiliano – mio abituale compagno di partite negli anni del liceo – sulla terra rossa del circolo La Raquette di via delle Armi. Di quell’ora di tennis pomeridiano ricordo in particolare la mia totale deconcentrazione dovuta all’euforia per l’incombente impegno serale (e probabilmente agli sfottò di Massi che non era per nulla in linea con la mia deriva metal di quel momento).
Gli anni del liceo non li rimpiango per nulla e non rimpiango nemmeno le mie compagne di scuola snobbate in favore di un qualunque disco dei Judas Priest. Ciò che davvero rimpiango è l’agitazione che mi chiudeva lo stomaco prima dell’appuntamento con uno degli eventi che mi appassionavano: fosse esso una partita di calcio del Bologna F.C., un incontro di basket della Fortitudo o un concerto delle Girlschool.
Quell’entusiasmo si che mi manca, mi manca un sacco.
Childbirth “I only fucked you as a joke”
#Seattle #Olympia #Riot Grrls #Suicide Squeeze #90’s #One chord is fine, two chords is pushing it, three chords and you’re into jazz
Mike Krol “Neighborhood Watch”
Chiaro, sono andati tutti in coda a Jay Reatard, tutti. Ma, altrettanto chiaro che lui era inimitabile e irraggiungibile. Allora ci siamo accontentati, tanto non avremmo potuto fare nient’altro. Qualcuno è salito sul treno, qualcun altro forse è stato più sincero perché già ce lo aveva dentro. Personalmente su musiche del genere non è che sto tanto a pensare: certe cose hanno sempre vita facile con me. Qualche canzone mi piace di più, qualcun’altra mi piace solo un po’ di meno, ma alla fin fine mi faccio sempre fregare. Sto tipo qui, ad esempio, mi piace proprio…..
Wavves “Pony”
…esattamente come mi è sempre piaciuto Nathan Williams. Sia quando era figo farselo piacere ai tempi di So Bored, che quando era un po’ meno hip farsi trovare in sua compagnia. Diciamo da King of the Beach in poi. Lui è un gran cazzone, non c’è alcun dubbio: un ragazzino bianco annoiato a Los Angeles che vorrebbe solo vivere in spiaggia col suo skateboard ascoltando hip hop, costantemente attaccato al collo di una bottiglia di Johnnie Walker. Invece gli tocca chiudersi tutte le sere in qualche club buio e pieno di fumo assieme ai suoi amici capelloni a suonare canzoni rubate a qualche disco minore della Epitaph. Però quelle canzoni, così essenziali e semplici, gli riescono sempre bene e io ci sbatto sempre contro volentieri.
Courtney Barnett “Shivers”
Cesare, Massimiliano ed io abbiamo opinioni contrastanti sulle cantautrici. Ogni volta che esce fuori un loro nuovo disco o spunta fuori un nuovo nome ne parliamo, spesso prendendoci vicendevolmente in giro. Ormai per noi è diventata una gag. Andando a memoria l’unico nome che negli ultimi tempi ha messo d’accordo tutti e tre è quello di Courtney Barnett. Questa canzone, che uscirà sotto la supervisione di Jack White per la Third Man come la to b di un 7” è stata scritta da Roland S. Howard ai tempi dei Boys Next Door, primo gruppo di Nick Cave, compatriota della Barnett stessa. Scelta perfetta, niente da dire. Mettiamo un altro più sul registro a fianco del suo nome.
Swervedriver “Never Lose that Feeling”
Questa è una roba vecchia. La piazzo qui perché è il pezzo che ha dato il titolo al Fiver di oggi, perché anche a distanza di tanti anni rimane una bellissima canzone, perché tra qualche settimana gli Swervedriver verranno a suonare nella mia città, a pochi chilometri da casa mia. Non credo andrò a vederli. Quella settimana nel giro di 4 giorni ci saranno un sacco di concerti dalle mie parti. E se proprio devo andare a vedere suonare qualcuno più vecchio di me allora andrò a vedere i Flipper: stesso locale, un paio di giorni prima.
Arturo Compagnoni