
A volte c’è differenza tra la qualità della musica che un gruppo suona e le canzoni che quello stesso gruppo scrive. E’ un concetto un po’ contorto ed è una circostanza non frequente ma può capitare, almeno a me capita. Capita ci siano gruppi che mi piacciono ma dei quali non trovo particolarmente attraenti le canzoni. Questo perché ci sono personaggi che non hanno tanto senso per la musica che compongono quanto un significato per come si pongono, per quel che rappresentano, per l’atteggiamento che hanno. Questi tizi non hanno canzoni di cui mi capiti serbar memoria, né dischi che possa catalogare tra i miei favoriti, ma nel complesso mi piacciono. Mi piace ascoltarli e a volte arrivo addirittura a considerarli presenze importanti.
I Fat White Family sono tra questi. Al loro primo album, Champagne Holocaust, mi avvicinai in ritardo e con grandi aspettative dopo il clamore suscitato dalla loro esibizione piselli al vento al Ypsigrock dello scorso anno. Quel disco al primo approccio non mi ha convinto ma non mi sono dato per vinto e ho insistito concedendogli più ascolti di quanti ne abbia accordati a dischi che pur mi sono piaciuti molto di più. Volevo convincermi, ne avvertivo quasi il bisogno. Perché la presenza di un gruppo del genere – almeno stando alle cronache che sino a quel momento mi era capitato di leggere – mi pareva importante, quasi necessaria. Nonostante ciò, a parte un paio di canzoni piuttosto buone per quanto non clamorose, il resto di quell’album proprio non mi si è appiccicato addosso. Non che sia un brutto disco ma dentro non ho trovato nulla di più rispetto ad una qualunque opera minore di Gun Club, Birthday Party, Cramps o Country Teasers tipi questi ultimi che per contiguità geografica – scozzesi loro, inglesi gli altri – affinità di intenti e comune fissa per la figura di Mark E. Smith, paiono molto molto vicini ai FWF (ok, i gruppi appena elencati non hanno in repertorio opere “minori”, era solo per rendere l’idea).
La famiglia bianca e obesa ha da poco pubblicato il secondo disco, Songs for Our Mothers. L’ho ordinato sulla fiducia a scatola chiusa dalla loro casa discografica, prima stampa vinile rosso. L’ho ascoltato e riascoltato ma alla fine poco o nulla è cambiato riguardo l’opinione che di loro già avevo. In più rispetto all’esordio c’è la citazione degli Throbbing Gristle sulla copertina del singolo che ha anticipato l’uscita dell’album, la sua battuta vagamente sintetica e metronomica che a me ha ricordato i Clinic e un generale senso di vaga e alienante rilassatezza che avvolge tutta la prima facciata dell’album. Per il resto i ragazzi – per dirla con parole loro – hanno lasciato sul tavolo un altro invito spedito dalla miseria per il ballo in maschera dell’odio umano: un blues ubriacato col punk, drogato di psichedelia e quadrato con una frazione di folk malaticcio. Roba che detta così sembrerebbe maledettamente figa ma che in realtà sbiadisce finendo applicata a canzoni che alle strette continuano a risultare un po’ anonime.
Quello che cambia nel giudizio di un gruppo del genere è il conoscerli di persona.
La sera in cui ho avuto occasione di incontrarli qualche mese fa ho capito dove sta il punto, un punto personale che come tale non imporrei a nessuno: questi ragazzi non vogliono in alcun modo piacere. E non lo fanno per posa, per crearsi un’aurea di personaggi scomodi e cattivi. Lo fanno perché sono così e non gli interessa essere nient’altro. Sembrano degli hooligan sputati fuori dalla curva del Millwall nel giorno del derby col West Ham con l’intento di scovare qualunque pretesto per menare le mani, niente affatto turbati di trovarsi addosso un fisico che a malapena li regge in piedi: la cattiveria compensa l’assenza di muscoli. Il cantante scatarra parole come grumi di bile misti a birra, suo fratello pare abbia il solo scopo di fracassare le tastiere che qualcuno gli ha imprudentemente affidato in mano, gli altri tre provano a tenere il tempo mentre il sesto in formazione, il chitarrista coi baffi e il dente spezzato, non c’è essendo stato cacciato via giusto il giorno prima. Non danno l’impressione di poter reggere a lungo: troppo disordine, troppa anarchia, troppa tensione, troppo poca correttezza. In un’epoca in cui la virtù sta più che mai nel mezzo – o più probabilmente nella mediocrità – loro sono troppo tutto, estremamente vivi e per questo terribilmente necessari. E questa cosa la apprezzo. Così come ho sempre apprezzato gente come gli Sleaford Mods, i Fall o i Country Teasers. Stessa stirpe: una faccia, una razza. Tutto il resto è noia.
Big Ups “National Parks”
Questo pezzo ricorda molto molto da vicino gli Slint, il che di per se già non è una brutta cosa, il resto del disco (Before a Million Universes, il loro secondo) in realtà è più veloce e se vogliamo anche più spigoloso. Un gruppo che va a spulciare un pezzo di anni ’90 cui pochi oggi stanno pensando. Dal vivo dovrebbero essere un uragano, tra poco arriveranno in Italia, occhio.
Black Mountain “Florian Saucer Attack”
I Black Mountain a casa mia fanno parte di una strana e personalissima categoria di gruppi: quelli che quando esce un loro album mi piacciono sempre un sacco, poi me ne dimentico e li allontano in una casella della memoria che resta chiusa sino all’uscita del loro prossimo disco. A quanto pare il primo aprile sarà il momento di aprire la casella.
Teleman “Düsseldorf”
I Pete and the Pirates mi piacevano parecchio. Soprattutto il primo disco lo consumai per mesi. Per qualche imperscrutabile motivo i Teleman, che hanno in formazione tre ex pirati tra cui il cantante, non li ho finora considerati. Questa canzone che precede l’imminente uscita del loro secondo album però promette bene e credo mi convincerà a dargli un ascolto.
Rendez-Vous “Distance”
Spesso da queste parti ci è capitato di ricordare e sottolineare il rilievo delle etichette discografiche. Sono biglietti da visita importanti. A questi tipi francesi ad esempio non sarei mai arrivato se non me li avesse proposti l’Avant! Records, label bolognese dedita alla accurata ricerca di suoni post punk, dark wave, minimal synth, neo folk (lista presa in prestito dal loro sito).
Pet Shop Boys “The Pop Kids”
Negli early 90’s citati dalla canzone non ero già più un kid e di certo all’epoca non apprezzavo i pop hits, eppure nel testo che scorre sopra le immagini mi rivedo parecchio e il velo di malinconica nostalgia che solleva è di quelli spessi due dita. I Pet Shop Boys stanno tornando, e la cosa non mi dispiace affatto.
Arturo Compagnoni