
Dovessi tracciare un sommario bilancio dei miei ascolti in questi 35 anni – mese più mese meno – di passione per la musica, farei estremamente fatica a individuare una classifica dei miei gruppi preferiti. Potrei citare tre/quattro nomi che per un motivo o per l’altro hanno segnato più di altri il mio percorso, così come una manciata di band che hanno accompagnato in maniera più o meno significativa un arco temporale specifico e circoscritto, finendo poi per sbiadire nell’oblio del lungo termine. In ogni caso non credo troverei grandi certezze cui aggrapparmi, caso mai ne avessi bisogno. Penso che il motivo principale risieda innanzitutto nella volatilità del mio gusto personale che, pur confinato tra coordinate in linea di massima inamovibili, ha ciclicamente portato in evidenza determinati gruppi anziché altri. In secondo luogo sarei propenso a scommettere sulla mia naturale avversione a cucire addosso a chiunque l’abito di mito, evitando santificazioni dogmatiche. Nel magma fluido di migliaia di nomi che hanno accompagnato questi lunghissimi anni ho però sempre individuato due punti fissi. Due porti sicuri cui tornare che per quanto fondamentali e costanti nella loro presenza, curiosamente non potrei fare rientrare nelle due categorie di cui sopra: certezze assolute e pietre angolari a scadenza temporale. Se facessi una statistica questi due nomi, Fall e Wire, penso li troverei infilati come parametro di riferimento per “nuovi gruppi che mi piacciono” in un buon 70% delle recensioni che negli anni mi sono preso la briga di scrivere. Da Pavement a Protomartyr passando per Elastica e Futureheads , LCD Soundsystem e R.E.M. tanto per fare qualche nome a caso.
Decollando dalle medesime premesse, il rock dell’immediato dopo punk, il percorso di Wire e Fall è differente per quanto ugualmente impressionante. I Fall attraverso innumerevoli cambi di organico gravitanti attorno al perno fisso Mark E. Smith hanno posto il proprio inconfondibile marchio di fabbrica praticamente su ogni stagione trascorsa dall’anno di uscita di Live at the Witch Trials (1979) ad oggi, all’incredibile ritmo medio di un album l’anno. I Wire invece, pur partendo con un paio di anni d’anticipo, hanno messo a referto meno della metà dei dischi semplicemente per il fatto che un paio di volte (tra il ’79 e l’87 prima e tra il ’91 e il 2003 poi) hanno pensato fosse una buona idea dedicarsi ad altro.
Una cosa che mi piace dei Wire è che in quest’epoca di retromania totale hanno deciso che vivere di ricordi e nei ricordi non fosse faccenda adatta loro: ad ogni nuova riunione nuovi dischi, peraltro sempre centratissimi nella loro attualità. “Fondamentalmente penso che non essendo ancora stata inventata la macchina per viaggiare nel tempo, per sentire suonare dal vivo le canzoni dei Wire di fine anni ’70 come i Wire le suonavano a fine anni ’70 l’unica possibilità per farlo sia quella di essere stati a un loro concerto in quegli anni. Non ci interessa oggi essere una cover band di noi stessi, posso capire che ci siano ragazzi che amano quelle canzoni e a cui piacerebbe ascoltarle suonate dal vivo, ma andare ad un concerto non è come sedersi al ristorante e ordinare quello per cui si pagherà il conto alla fine” (Colin Newman, 2016).
Anziché rannicchiarsi accoccolati sui tre dischi che ancora oggi accumulano citazioni ovunque (Pink Flag, Chairs Missing e 154) i Wire si sono rimessi in pista ogni volta alla ricerca di nuovi stimoli, nella concezione piuttosto condivisibile che la musica sia un viaggio di sola andata e il guardarsi indietro debba servire unicamente come cemento per le certezze del futuro.
Superata la soglia dei 60 anni (a parte il solo Matthew Simms, sostituto di Bruce Gilbert, unico pezzo mancante rispetto la formazione originale) sono usciti con un nuovo album, un mini a dir la verità, che si intitola Nocturnal Koreans. Una bella botta che in parte azzera le persuasioni pop registrate nel disco dello scorso anno. Otto canzoni in tutto e non ce n’è una che sia meno che bella. Poche settimane prima è uscito un altro mini album, Wise Ol’Man, l’ennesimo nuovo disco dei Fall. Mi piace pensare che il saggio vecchio del titolo possa essere Mark E. Smith o un tipo come Colin Newman. Personaggi che secondo i parametri comuni, quelli del buon padre di famiglia, difficilmente potrebbero essere definiti saggi. Ma che secondo i miei di criteri, lo sono eccome. In realtà dal testo tra i biascicamenti di Mark E. Smith come sempre non si capisce quasi nulla, quindi vai un po’ a sapere.
In ogni caso è il 2016, già da un po’ ho girato la boa del mezzo secolo e dopo 35 anni ho ancora sullo stereo due nuovi dischi di Wire e Fall.
Tanto basta per sentirmi un po’ meno vecchio.
E anche un po’ più saggio, a modo mio.
Wire “Still”
Loose Tooth “Sherry”
I Loose Tooth arrivano da Melbourne e il loro primo album si chiama Saturn Returns. Sono in tre, due ragazze su batteria e chitarra e un loro amico al basso, tutti si alternano alla voce. La loro miscela di indie pop piazzata con noncuranza a cavallo tra anni ’80 e ’90 è piuttosto elementare, ma funziona.
Kevin Morby “Dorothy”
Quando in una delle nostre torrenziali conversazioni triangolari i miei due soci hanno liquidato in due battute semi serie il nuovo disco di Kevin Morby secondo me non erano arrivati ad ascoltare questa canzone. Gliela piazzo qui così la recuperano, poi ne riparliamo.
A Giant Dog “Sex & Drugs“
Tra i tanti meriti che le si possono ascrivere, la Merge ha anche quello di impegnarsi a scovare e valorizzare artisti che sono già usciti con qualche disco ma che non hanno ancora ricevuto l’attenzione che meriterebbero. Come gli A Giant Dog, texani di Houston, che all’etichetta di Mac McCoughan sbarcano per pubblicare il proprio terzo disco. Un piccolo gioiello forgiato sui riff di T-Rex e Slade attorno alla voce di Sabrina Ellis, novella Joan Jett, che a tratti decolla con una dinamica che riporta dritti sulle assi del vecchio CBGB’s, con tanto di sibilo degli amplificatori a far da sottofondo.
The Fall “Wise Ol’Man“
Arturo Compagnoni