Ebbene sì: è successo. Ieri era l’anniversario di un fatto di nessun conto nella storia dell’uomo, inevitabilmente fondamentale o, meglio, fondante, nella mia.
Il pomeriggio di un sabato di quaranta lunghi, lunghissimi, infiniti anni fa, in un ospedale di Feltre, appena sotto le Dolomiti bellunesi, una giovanissima e bellissima donna dava alla luce, dopo una dozzina di ore di travaglio, un cucciolo d’uomo privo di naso e con delle strane macchioline sulla faccia. Lo chiamò Fabio. In lizza solo Alessandro, nonno paterno (non mi sarebbe andata poi male anche con la seconda scelta, ma ho sempre amato molto il mio nome).
Lei voleva che il suo primo figlio nascesse in settembre. Io ho tenuto duro fino al pomeriggio del primo ottobre. Primadonna da subito, rompipalle pure, gettato nel mondo (direbbe Martin) all’ora giusta del giorno giusto: quattro e dieci del sabato. Il tempo di mettersi qualcosa addosso ed uscire per un paio di drink prima di far serata.
Chissà se mia madre se l’è presa di più per la mezza giornata di travaglio o perché sono saltato fuori in ottobre e non nel suo mese preferito, ma, comunque sia, da lì in poi il nostro rapporto si è sempre basato su una sottile e masochista per entrambi forma di scontro, avvicinamento/battaglia, lite furente/amore a distanza, come in un balletto post moderno che incarni l’impossibilità di un agognatissimo amore.

Forse disco dell’anno e quasi certamente live dell’anno – potrebbero scalzarlo nei prossimi mesi solo BRMC e Horrors. Un po’ di attesa per Dirty Fences al Covo – ma non credo che nel 2017 qualcosa potrà scavalcare la potenza e, non a caso, brutalità del concerto visto a LRDR dei giovani Idles che presentavano il loro Brutalism.
(Appena dietro, ma su queste pagine l’ho già scritto più volte, il live pazzesco di Albini & Co. all’Hana Bi quest’estate.)

Ma qui siamo a parlar di me, che l’argomento interessi il mondo intero non vi è dubbio alcuno.
Pomeriggio d’autunno, dicevamo, e così sono sempre stato: un pomeriggio d’autunno. L’amore per i colori e le luci soffuse, taglienti come lame a illuminare d’improvviso il rosso di una foglia di castagno bagnata dalle infinite piogge ottobrine. Il silenzio e l’odore della legna e dell’aria carica d’acqua. Il caos di un locale affollato e la notte. Il buio. Quello sempre. Sempre amato più l’oscurità della luce, i colori tenui e pallidi più del calore estivo di un ocra e di un vermiglio leonini nella loro forza. Invadenti, nella loro bellezza.
A sedici anni, certo di essere l’erede di Rimbaud: gli stessi turbamenti (e la convinzione di aver compreso Le Batteux Ivre) che mi facevano scriver poesie. A diciotto, come il Poeta, avevo smesso e la poesia la leggevo soltanto. Quante ore su Montale, Baudelaire e poi Ferlinghetti, l’adorato Allen Ginsberg. Tutte le lezioni di matematica e scienze seduto in cesso a fumare canne e leggere i grandi.
La filosofia, quel bisogno di capire che cazzo ci stavo a fare al mondo che mi obbligava a studiare ogni possibile risposta il mondo avesse mai dato. E quindi, dove vai a studiare filosofia nel 1996? Ma a Bologna. Dove nelle aule del TPO in via Irnerio, nei corridoi del L.I.N.K. di via Fioravanti, alle lectio magistrali del Livello 57 sotto il ponte di Stalingrado e nella sala studio del 25 occupato (questa non è una gag, esisteva e io studiavo lì i miei esami da 30 e lode, si sappia perdio) il giovane Fabio maturava la propria visione del mondo tra le letture dei classici del pensiero occidentale, la passione per il cyberpunk, le unghie smaltate di nero e il boa blu elettrico e l’unica fede negli scritti di tale Federico Nietzsche.

Ho sempre amato le voci femminili. Le ultime mie passioni a tal riguardo Sharon Van Etten, Savages, Florence and The Machine, Daughter (mammamia lei quanto è bella, pure…), Angel Olsen, Regina Spektor, l’adorata Anika e qui, da noi, Joan Thiele, Birthh, Ofeliadorme, Beatrice Antolini ma anche Claudia aka Levante (sì, lo so, sento già i buuuuuuuuuuu di voi mezze pippe indie, intanto paghereste tutti per un uscita con la bella siculotorinese) ma poi andiamo indietro e allora c’è la Bertè, Mia Martini, la Rettore e Patty. Anna Oxa: forse il primo concerto visto neanche a dieci anni e sicuramente la prima e unica cantante di cui mi sia innamorato. E allora torniamo ai primi amori. Lei si chiamava Chiara e aveva un paio d’anni più di me. Lei invece si chiama Mina Anna Mazzini e si faceva chiamare Mina e ogni volta che la sento per caso devo ascoltarla per ore e torno bambino mentre mia mamma guarda su televideo a che ora fanno “Telefono Giallo”.

E l’università e il movimento, finivano i ’90, molto più di un decennio. Un ribaltone. La tecnologia che faceva un salto avanti di cent’anni ogni due, i muri che erano caduti e tutta la storia studiata sui banchi che si spegneva in barconi che puntavano l’Italia perché la tv di Berlusconi raccontava in giro che eravamo tutti ricchi e felici.
Io scrivevo i primi romanzi – il primissimo, cassato con una splendida lettera che conservo di Castelvecchi, proprio lui, Alberto, e se dovevo prendermi un “no” ben venga che sia stato suo e con quelle parole piene di sincera energia e inviti a continuare. L’ho fatto. Prima o poi lo incontrerò e lo ringrazierò – e già mi stufavo dell’università, mi innamoravo di Cioran, ci scrivevo sopra un saggio che a quindici anni di distanza mi porterà a novembre ad un convegno internazionale proprio su colui di cui porto tatuato un aforisma sulla pelle. L’università, amore e rammarico. Tutto quello che sognavo e la caduta delle illusioni. La caduta dei ’90. La caduta di una giovinezza che non troverà più vera fine, né pace, né un posto, una casa in cui crescere e invecchiare.
Io lo so, ragazzi, che oggi vi gasate un sacco quando esce un disco di Ty Segall ed è giusto. Che aspettate la nuova uscita di Car Seat Headrest ed è giusto. Sono bravi. Ai loro concerti si canta e si poga. Ma io, non me ne vogliate, andavo, ragazzino, al sabato al negozio di dischi ed era appena uscita una roba così:

Poi i 29, compleannus horribilis: tutto era finito e in realtà stavo solo prevedendo quel brusco cambio di rotta che la mia vita avrebbe preso di lì a poco. Adulto. Ero adulto. Forse più di adesso. Adulto come responsabile, adulto come “so su che binari sono e dove andranno”, adulto come “posso fare previsioni sulla mia vita”. Sì, ho avuto il picco di maturità una dozzina di anni fa.
Un romanzo, l’università abbandonata dopo un paio d’anni di collaborazione con un docente, l’osteria rimasta al suo posto perché una cantina in cui sono nati i Nabat e il punk del ’78-’79 non poteva che diventare la mia casa bolognese.
Un sacco di casini fatti qua e là, un bel po’ di ammaccature e qualche segno sulla pelle, tutto a ricordare, come cicatrici, quello che è successo, che ho fatto, che mi hanno fatto.
Ricordare per imparare, per capire da dove vieni e dove puoi andare.
Ci ho provato: sono stato integerrimo. Non sono uscito per anni. Ho provato ad osservare il mondo raccontandolo con inutili fiumi di parole scritte su carta. Nascosto ben in vista.
Poi tutto è tornato irrimediabilmente alla sua essenza.
Bilancia ascendente acquario: aria su aria. It was not my fault I swear to god!

Altra bomba di quest’anno, visti sempre a LRDR (sempre sarò grato a Dario “Straccetto” Falcone che anni fa mi disse di andare a quel festival sulla costa nord della Francia, mentre finivo di scrivere i miei racconti), con un live se possibile più malato di quello della bianca e grassa famiglia d’origine: signore e signori, The Moonlandingz!

Ma, insomma, tutto ‘sto pezzo perché?
Beh, un po’ perché quei fannulloni dei miei soci non hanno voglia di scrivere e serviva un #fiver per lunedì 2 ottobre, un po’ per farci due risate e un po’ per condividere con tutti voi questo momento tosto: è il primo lunedì della mia vita da “anta”.
È il primo mattino lucido dei miei “anta”.
Cazzo, ho fatto quarant’anni. E adesso? Adesso, come dice mia madre, basta tatuaggi.
E poi, dico io, basta sbronze mortali come quella di sabato al Covo e domenica al Pub, il Celtic, vent’anni di Guinnes lì dentro… basta concerti in transenna, basta pogare, basta rendersi ridicoli barcollando in un locale, basta scrivere di continuo, basta uscire e chissà, magari si torna a casa all’alba.
Basta. Dai, su. È ora. Ora di dire basta. Basta prendere più di quattro aerei in un mese. Di decidere a caso di volare in una città per vedere un concerto. Basta viaggiare tantissimo, basta stare sempre a cercare qualche cosa. Basta.
Quello che è fatto è fatto. Giusto?
Poi, dai, pure il Papa Francis è passato a Bologna a farmi gli auguri, sarà pur un segno, no? C’è speranza. Perché se io posso cambiare, e voi potete cambiare… tutto il mondo può cambiare! (cit.) E giù lacrime.

E, niente, di stronzate ne ho scritte un po’ nelle righe precedenti, le famose due risate ce le siamo fatte ed è ora di chiudere. E verso il fade out ci vado seguendo quest’escalation di maraglianza che ci ha portato a passare dai Blues Bros a RockyIV, con un saluto che fu pane quotidiano al liceo per qualche settimana, il tempo di blaterare all’infinito di quella bomba che era stato Terminator2 Il giorno del giudizio al cinema.
E allora, ricordando le mattine del 1991 e la mia camiciona a scacchi grigioverde e i capelli lunghi fino alle spalle, vi dico: “hasta la vista, baby”.
Ci sentiamo alla prossima.
Più seri, posati e blablablablablablablablablablablablablablaaaaaaaaaa

PS: sono pure invecchiato meglio di Axl. Fuck!

Fabio Rodda


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