Gorlitzer Park si colora d’autunno mentre l’attraverso in uno sprazzo di sole. Cammino a zigzag tra le pozzanghere e gli spacciatori, qualche perditempo che, come me, se ne va a zonzo senza meta.
Una pausa di luce tra due acquazzoni e camminare respirando l’odore dell’erba bagnata placa i nervi, la tensione di ore a cercare di scrivere quel pezzo che non viene mai. Camminare muove anche l’anima, farlo per strade che non sono tue, ma che senti tue, ancora di più. Incontri occhi che non conosci, senti una lingua che non sai.
Quasi vent’anni fa, qui, uno di quei momenti che ti cambiano la vita. Se a Capodanno non fossi entrato in quel locale. Se fossi tornato in quello squat a Prenzlauerberg. La città dei “se”.
Ma i binari poi partono e corrono in una direzione sola. Chissà cosa c’era dall’altra parte.
Ricomincia a piovere e non ne ho voglia di inzupparmi. Ovviamente l’ombrello è bello asciutto sul divano di casa. Casa per qualche giorno, dall’altra parte del parco. M’infilo in un caffè e mi faccio riempire una tazzona di liquido scuro e fumante. Guardo la strada colpita dalle gocce sempre più aggressive, ora da folate d’acqua che cambia il colore del cielo, delle foglie sugli alberi. Non capisco tutti quelli che dicono che la vita è un impegno, che bisogna fare fatica per arrivare.
Certo, se per te conta un cazzo di lavoro, una carriera, certo che devi faticare, che devi studiare, sudare, imparare, provare e cadere. E ripartire e poi arrivare dove volevi arrivare. Forse. Se ce la fai.
Se te lo lasciano fare. Se la vita non decide di correre da un’altra parte. Ma questa, cazzo, è una gara. Non è una vita. Non è la vita.
Ok, fai il tuo master, godi della tua promozione. Brinda all’aumento. Va tutto bene.
Ma non pretendere che io sia impazzisca di gioia per tutto questo.
Una manciata di anni. Se tutto va bene. Questo abbiamo. E davvero vuoi farmi credere che conti il tuo lavoro? Quello che fai davanti al computer per otto ore al giorno? Davvero vuoi che io sia emozionato perché non sei stato su youporn per lo stesso tempo? Davvero vuoi che ti dica che sì, certo, tu sei unico. Io anche. Noi, poi… cazzo, e chi c’è come noi?
E se la vita fosse un’altra cosa? Se l’importante fosse qualcosa d’altro?
La porta si apre, entra una ragazza. Occhi blu enormi, sotto una chioma rossa bagnata. Si siede vicino alla stufa e si stringe per un momento nel maglione zuppo, prima di toglierlo e appoggiarlo
sul divano più vecchio di me. Gli sguardi s’incrociano per un momento. Un cenno istintivo di saluto, lei risponde con un sorriso e
va a ordinare. E se sbattersi tanto per raggiungere gli obiettivi non fosse la cosa più importante?
Ieri un’amica mi ha detto che qui, a Berlino, le persone parlano per ore nei club. Poi si salutano. Ognuno per la sua strada. E basta, fine.
Io le dicevo ok, ma se io non ti conosco ed è una bella serata e siamo presi bene, dopo due ore che chiacchieriamo e balliamo assieme ti dico di andare a bere qualcosa da un’altra parte. Magari di
venire da me. Non è normale? Lei mi detto qui no.
Ok. Quindi: due ore di blabla blabla. Poi, ciao. Ognuno per la sua strada. E nessuno scopa in questa città?
Certo. Torni a casa e vai su Tinder. Non ti fideresti mai ad andare a casa di uno sconosciuto.
Berlin I love you, but you’re bringing me down.
Come fai a parlare per ore con qualcuno, occhi negli occhi, e non volere mai andare oltre.
Certo, una volta hai voglia di fare due chiacchiere e basta, va bene. Ma non hai mai voglia di sentire altro? Che odore ha chi hai davanti? Che sapore? Mai?
La mia amica, berlinese doc, mi ha risposto: è solo un’altra persona, tanto non la rivedresti mai per caso e ne incontrerai comunque un’altra. Certo. Solo un’altra persona. Solo un’altra persona? Perché esiste qualcosa di più bello e importante di un’altra persona? Puoi anteporre “solo” a “un’altra persona”?
Tutto per non rischiare. Mai.
E se, invece, la chiave fosse buttarsi? Andare, conoscere, scavare. Amare, anche per un momento solamente.
Amare fino ad impazzire. Consumare, un corpo sull’altro, ogni secondo possibile, fino a che le gambe non tengono più in piedi. Fino a che fa male anche l’anima. Amare così, perché è l’unico modo vero di amare. Qualcuno dirà che poi si cresce.
Che l’amore sarà un impegno, che sarà un percorso, che sarà un lavoro. Un lavoro? Quanta stupidità, quanta paura.
Amarsi è tremare, è sentire la sua pelle, è pensare che nessuno abbia mai sentito quell’odore così forte, che nessun cuore abbia battuto così in fondo, che sembra stia scoppiando.
Ed è vero. È così: nessun cuore ha mai battuto così forte come il tuo. Nessuno ha mai respirato la sua pelle come tu, quella notte. Nessuno ha mai guardato un viso così bello che dormiva mentre fumavi quella sigaretta davanti alla finestra senza niente addosso e l’aria fresca entrava, ed era quasi l’alba. È vero.
È che poi si dimentica. Si dimentica per poter andare avanti, per continuare a vivere. Forse non eravamo fatti per vivere cent’anni ma trenta e allora a venti quell’amore pazzo era, non poteva che essere, l’unico, il più grande. Forse abbiamo dovuto imparare a smettere di amare. Ad accontentarci, a cercare un compagno perché quando torni a casa la sera da solo, a volte, è proprio dura. Perché la domenica senza calcio o droga non passa. Forse.
Majakovskij diceva che amore e lotta sono la stessa cosa. Come i pesci che sembra si stiano baciando e invece combattono. Come il graffito su quel muro qui vicino, con quei due che si baciano. Quello che hai fotografato anche tu.
Fare l’amore fino a quando manca il fiato è fare la rivoluzione. La libertà di un corpo felice è la libertà di un’anima che non ha paura.
Siamo bipedi col pollice opponibile e qualche pelo in meno dei nostri parenti a sangue caldo che stanno nella foresta o, poveri loro, negli zoo, ma siamo qui esattamente come loro: buttati quasi a caso – probabilmente solo a caso – a cercare qualcuno che ci scaldi nelle ore più difficili.
Io sono folle, folle, folle d’amore per te .
Io gemo di tenerezza perché sono folle, folle, folle
perché ti ho perduto .
Stamane il mattino era cosi caldo
che a me dettava quasi confusione
ma io ero malata di tormento
ero malata di tua perdizione.
(Alda Merini, Folle, folle, folle di Amore per te)
La città dei “se”, di quei momenti capitali in cui un caso, un passo fatto o meno, una porta aperta o no, una strada attraversata o una panchina su cui stare seduto cambia la vita; la città che poteva essere mia e non lo è stata. O forse sì. Lo è diventata comunque, che lo volessi o no.
Guardo i sampietrini calpestati da persone che corrono cercando riparo sotto le tende dei bar. I fari di poche auto illuminano, per un momento, l’orizzonte. Mi viene voglia di sorridere. Penso che qui non ci vivrei più, ma che non smetterò di tornarci. Che non invecchierò nemmeno dove vivo ora, sono solo di passaggio, ma ci rimarrò ancora per un po’.
Le cose vanno sempre come devono andare. L’importante è non rimpiangere mai una strada che non hai voluto imboccare: mentre stai a frignare potresti non vedere quella, perfetta, che ti è appena
stata messa davanti dal caso, o caos, o destino. Tutte parole che dicono la stessa cosa.
Solo un’altra persona. Berlino, Berlino, dai, lo sai: non puoi credere a chi ti dice che “tornerà” che “chissà quante troverai come lei”. Non è vero. Lo sai. Lo so. Lo sappiamo: non la troverai mai più.
La cercherai in mille occhi, su mille letti, ma non la troverai mai più. Quello che lasci andare via se ne va. E basta. Lo sappiamo, dai.
Come un serial killer
faccio pagare alle altre donne
la colpa
di non essere te
(Miche Mari, Cento poesie d’amore a Ladyhawke)
Io non lo so se ero sempre da solo o se mi sentivo così solo che nei ricordi sono sempre solo io.
Berlin I love you, e non ci credo a questa storia che qui non si sa amare, non è possibile. Con quest’aria che ti riempie, con i colori che hai, con le giornate di pioggia e le case coi pavimenti di legno e le stufe a carbone, cos’altro c’è da fare nei lunghi pomeriggi d’inverno se non consumarsi uno sull’altro?
Quell’odore di carbone nell’ingresso dei palazzi che per me sarai sempre tu, Berlin.
Non ci credo che non sai amare.
Lotta, ama, godi. Senza queste tre cose, niente verrà mai bene.
Un sacco di pensieri, come sempre, quando cammino per le tue strade. Stasera un bel concerto in un locale che non conosco, domani un’aereo e si torna. Solo per un po’, solo per ripartire.
Il mio caffè è finito.
Lei è veramente bellissima e chissà dove vive e cosa fa, magari se è sposata: forse si ripara qui prima di andare a prendere sua figlia a scuola di danza, proprio qui dietro. Chissà. O forse stava
passeggiando nel parco perché non trovava le parole per finire il suo romanzo, come me. E si sta domandando le stesse cose che mi domando io, guardandola ancora.
Fuori non accenna a smettere. Mi alzo, chiedo un’altra tazzona di brodaglia. Mi giro. Lei sfoglia
una rivista. Incrociamo gli occhi di nuovo.
Ciao, mi chiamo
Fabio Rodda