Cari amici vicini e lontani,
ci dovrebbe essere un guado da non oltrepassare quando si discerne di musica. Soprattutto se è di merda. Un’asticella sotto la quale, scivolandoci, è sì limbo ma anche reato. Mi auto accuso subito visto che – con arzigogoli giustificativi – provo a spiegare perché non sono un Minus Habens se ogni anno che Iddio manda in terra io mi spiaggio sul divano a guardare Sanremo (sovente con bloc notes e bradisismi diaframmatici. Ok: rutti). Anzi: il Festival di. Sottolineo ‘guardare’ prima che vi si induriscano i capezzoli dall’indignazione. Chi è senza palco fiorito scagli la prima pietra; del resto per sei mesi abbondanti devo sorbirmi urletti isterici, cesellazione di gonadi, ‘Snobbery & Decay’ (vista la citazione dotta? Sembro stupido ma…) e Gran Pavesi assortiti riguardo il Primavera, quindi per quattro giorni l’anno potete anche portare pazienza e continuare a trattarmi come il cugino svantaggiato al pranzo di Natale. Tanto più che in Liguria si parla la lingua di Dante e non quello strano Gramelot pacioloso iberico. Non che l’uno o l’altro – Festival, non idioma – per me pari siano eh, fin lì ci arrivo anche io (anche se a Bjork preferisco qualsiasi Hop Hop Somarello di Paolo Barabani), tanto più che non ho mai messo piede né in quel teatro né su quella spiaggia. Ergo posso brontolare come un Hilton & Waldorf qualsiasi.
E’ che a me, Sanremo, piace (piaciucchia, via) vacca boia. Piace per tutto alla fine, forse anche per la musica di merda. Piace il senso sopra le righe del trash – purtroppo – inconsapevole; piace la tradizione che ci portiamo dietro, fatta di Canzonissime, parentado riunito, commenti, paste e caffè nero bollente (questa la capiscono in tre, mi sa); piace che si prendano così tutti stramaledettamente sul serio; piace che faccian passare per ironia o comicità quei siparietti scrausi davanti ai quali Alvaro Vitali assume la statura di un Lenny Bruce; piace che sia tutto ‘pazzesco’, ‘fantastico’, ‘bellissimo’, ‘mirabile’; piace che gran parte della popolazione oltre quelle Colonne d’Ercole non si sia mai avventurata, medagliando gente come Giorgia. G-i-o-r-g-i-a, cristo! Tutti noi abbiamo scheletri negli armadi – magari io ne ho di più, ok – l’importante è essere coerenti, non vergognarsi e saperci fare una grassa risata sopra. Conosco insospettabili duri et puri che piangono come cherubini all’ascolto di Baglioni, gente ‘del giro giusto’ che non potrebbe stare senza Antonello Venditti, ex ravers o radioheadiani di ferro che a Renato Zero, Raf o Eros Ramazzotti non possono resistere. Conosco addirittura gente convinta che ‘Serenata Rap’ sia un pezzo della madonna (non la Ciccone, l’altra).
Insomma, è come entrare su Rotten Tomatoes: sai che farà schifo ma ti riesce difficile farne a meno.
Seguo il Festival ininterrottamente dal 1978 (Anna Oxa Punk, va’ che figata scriverlo!), e credo di essermi perso solo un paio di edizioni a metà degli anni novanta per pressanti et urgenti problemi personali, sovente riconducibili ad esemplari di ‘foemine’. Quindi so di cosa parlo, anche se lo spiego male. Ho visto – e sentito – cose immonde (i Pandemonium, Enrico Beruschi, Jo Chiarello) e defecate abissali (Elton John che crede sempre di essere al funerale di Diana Spencer e nessuno provvisto del coraggio necessario per avvertirlo che le esequie si sono già svolte); siparietti entusiasmanti (i Blur col cartonato di Graham Coxon) e lacrimucce assortite (un Cat Stevens in solitaria, toccante come pochi; Damien Rice; i R.E.M.). I R.E.M., cazzo! Che è come scriversi I.N.R.I. sulla croce. E ancora Buster Bloodvessel dei Bad Manners che esibisce le terga in Eurovisione, o Peter Gabriel che volteggia con una fune sopra il pubblico prima di calibrare male il ritorno e spezzarsi la schiena sulle assi del palco. Insomma, sarà anche l’anagramma di Ramones ma ogni tanto un Blitzkrieg Bop ci stava tutto.
Ho altresì avuto anche belle epifanie, ‘che la musica italiana sovente così bistrattata qualche volta una zampata riesce (riusciva?) a tirarla fuori: i Decibel di Contessa; un immenso Franco Fanigliulo che anticipa Vasco Rossi proponendosi come un giullare medievale e lisergico; il Garbo di Radioclima (e Cose veloci, l’anno dopo), così algidamente wave su quel palco; il ritorno di Patty Pravo nel 1984 con Per una bambola, pezzo di una raffinatezza unica ad opera di quel Maurizio Monti che mai sarà elogiato abbastanza. E ancora Giuni Russo che porge al dentistico parterre Morirò d’amore, una crasi tra i Japan di Ghosts e la 4AD tutta. E poi Santandrea, Richter, Venturi & Murru, gli stessi Matia Bazar di Vacanze Romane, che se gli Ultravox avessero avuto un po’ di sale in zucca si sarebbero riconvertiti così. O La nevicata del ’56 di Mia Martini. Insomma, ce ne sarebbe da raccontare a iosa senza andare ai tempi d’oro della canzone d’autore e citare Sergio Endrigo. Pure quella Giorgia Fiorio di Avrò conteneva un suo perché; ‘avrò parole, e poi le mani quelle sole’. Funzionalissima all’approssimarsi della mia maggiore età per mille motivi. Eccetto la canzone. O Il Coro dell’Armata Rossa: per poterlo udire in diretta dovetti attendere Toto Cutugno e non i Giochi Olimpici, che è un po’ come immaginarsi il Balanescu Quartet che gigioneggia con Cliff Richard.
Da qualche anno quel palco risponde a dei requisiti ferrei cementati sull’ovvietà e l’immobilizzo: un paio di vecchi tolti dalla salamoia; una manciata di giovani di belle speranze pronti a sbattere il grugno ‘sulle complessità della vita’ (altra citazione, mi faccio paura); il classico gruppo – sovente di guano – in odor di indie (che è un po’ come le quote rosa. Ma tolgo dalla volata il Mauro Ermanno Giovanardi di Io confesso); una spruzzata di tette; un omaggio a qualche defunto eccellente (mai filato in vita, peraltro); uno scandaletto light; talent q.b.
Shakerare, non mescolare.
Insomma: negli anni ho dovuto sfidare pubblico ludibrio, canzonature assortite, pecette da Minus Habens (l’ho detto), soloni (de visu e de web), Cura Ludovico. Non si poteva, non si doveva; c’era un ‘di qua’ e c’era un ‘di là’, un po’ come la dicotomia tra rock e dance. Ad ogni tornata di ammissione scivolavo irrimediabilmente indietro nel ranking. Indietro, indietro, sempre più indietro finché mi sono trovato più o meno nella stessa posizione dei libri di Isabella Santacroce su Amazon. Tra l’altro credo che la signorina sia addirittura stata chiamata in giuria, una volta. Ma potrei sbagliarmi.
Che poi, a guardar bene, sono molto più interessanti (per capirci, via) le vite di molti cherubini del mieloso spinto rispetto alle esistenze di parecchi rocker (soprattutto stranieri) ‘arrabbiati’ per contratto. Il veicolare messaggi di amore à la Liala su quel palco sovente non ha riscontrato altrettanta assonanza nella vita. E quello che hanno vissuto Patty Pravo (o anche la stessa Vanoni), Alessandro Bono, ecc.ecc. se non eguaglia i Kiss sicuramente oltrepassa Guns’n’Roses e paccottiglia varia. Ma sto divagando.
Mica prendo per oro colato tutto quel blob che esce dal tubo catodico ogni anno – signoriddio – mi par strano anche essere qui a spiegarlo, divincolandomi da una camicia di forza coatta. Accidenti. Ti siedi, guardi, sghignazzi, scuoti la testa (ma più verso la platea che sul palco), vai a pisciare o fumi (queste ultime due non contemporaneamente), ti gratti gli zebedei, un Fernettino ad ogni ‘di Pallavicini-Panzieri-Pilat’, rarissimamente senti una canzone che ti rizza quei tre peletti sul braccio. Poca roba ma famo di necessità virtute. E’ che in tempi di politically correct spinto non si può più fare o dir niente senza che gli indignati co.co.co. (che sono peggio dei leoni da tastiera, credetemi) non indicano una petizione su change.org. Un televoto a 0,51 centesimi a chiamata che ormai ci è sfuggito di mano e gioca per sottrazione. Zione. One. Ne.
E mi sa che anche questo pezzo avrà vita dura.
Michele Benetello