P.S. I LOVE YOU – Heart of Stone (Rocket Girl, 2002)

Il tempo cambia molte cose nella vita, il senso le amicizie le opinioni” cantava il vecchio guru. A riguardare quegli scaffali sembra che sia trascorso invano dacché avverto ere geologiche scivolate tra le dita invece dei soliti canonici 15 anni o giù di lì. In 15 anni puoi farci un sacco di cose, sono quasi quattro edizioni dei Giochi Olimpici. Un mucchio di tempo. Quello che non hai più e forse è anche meglio così, che a ritornare ai Campionati Mondiali in Corea mi girerebbero ulteriormente. A togliere la polvere dalla consunta copertina di Heart Of Stone ero convinto fosse uscito più o meno ai tempi di Piccoli e Fanfani (da farci un nome per un gruppo, no? The Fanfanis. Emo, chiaro) invece era il Berlusconi Due. Un po’ come la Loggia. Entra in circolazione l’euro, l’Argentina annuncia il default, i cd costano un botto, il Nancy vince l’ultima Coppa Korac. Muore Schiaffino. Anche carta e penna non se la passavano granché bene, stritolati dalle mail.
Ora non ricordo quale scimmia m’avesse colpito in quel lasso di tempo, molti dei miei beniamini se n’erano andati o semplicemente avevano smesso (per cause di forza maggiore, spesso) di produrre musica. Di nuovi Campag Velocet all’orizzonte neanche a parlarne. Facile che avessi riposto anche i dischi degli Ikara Colt, Gluecifer, Six By Seven, Ooberman, Crescent. Ecco, i Ladytron magari. Che per mezzo nanosecondo mi fecero volgere lo sguardo. Ricordo bene invece lunghe (lunghe: discrete, via) conversazioni epistolari con Vinita della Rocket Girl. Aveva un bel catalogo e – sebbene fosse in odor di shoegaze, materia onanista ‘che Slowdive a casa mia non si nomina – m’attizzava alquanto. Aveva pur sempre dato alle stampe i Silver Apples, Windy & Carl, un tributo agli Spacemen Three, i Piano Magic, gli Gnac, i Füxa. I Füxa diomio. Tutta roba buona, che dopo l’immersione più o meno forzata nel brit pop una camera di decompressione era d’uopo.
Un giorno mi parla di David Stroughter e io cado dalle nuvole. “Devi sentirlo” dice “Dopo i My Bloody Valentine sono la cosa più bella mai capitata. E non è nemmeno inglese. Te lo mando”. Magari non con queste esatte parole ma il succo era quello. Ci pensai a lungo con l’arroganza del prevenuto ma all’arrivo di Heart Of Stone non potei non fare un balzo dalla sedia e darle ragione su tutta la linea. Non sui My Bloody Valentine, quello no, mi ritenevo abbastanza scafato per alzare al massimo un labbro come Billy Idol. Ma che ci fosse un mondo dentro le pennellate bituminose di Stroughter non potevo non prenderne atto. Un mondo tutto suo, un mondo che mi immergeva in un paradosso cartesiano, quasi come se l’ultimo trend del globo fosse stato quello di celebrare il penultimo. Lo shoegaze, appunto (mai nome fu più stupido e imbalsamante) però io vi avvertivo i Velvet Underground, un certo gusto per la ripetizione coatta (che con me attecchisce sempre), l’indie scozzese più umbratile e dell’ambient sognante alla quale venivano strappate le mutande. Suonava quintessenzialmente inglese, insomma. Vi era pizzicar di corde (sei, per la precisione), confusione magna (Irish Fuzz ha un’introduzione che non avrebbe sfigurato su Urban Hymns), pennate indolenti, spruzzate di Stone Roses (Anna, uno dei vertici, dedicato alla tennista Kournikova), ritmiche catatoniche (Camel Toe) e voglie pop delle quali vergognarsi. 12 tracce talentuose che ben s’adagiavano sulla Rocket Girl, vacca boia. Mi toccava darle ragione su tutta la linea ma in sovrappiù ci mettevo vanitosamente gli A.R.Kane o quell’accozzaglia di deflagrati mentali chiamata Dr. Phibes & The House Of Wax Equations. Non che Stroughter fosse tanto più sano di mente, visto le disparate notizie col contagocce che arrivavano faticosamente (eravamo Senza Rete, come il programma RAI). Si sapeva che il solito John Peel ne era rimasto conquistato; che quel singolo Where’s The Fuck Is Kevin Shields (superbo: a riprenderlo in mano non ha perso un’oncia di smalto) aveva travalicato gli angusti confini del formato canzone per diventare slogan tra i più citati in quel 2002 sanguinolento. Magliette, adesivi, borse. Campeggiava ovunque. A me rimanevano le cavalcate fuzz di Amsterdam, le estetiche movenze in guisa di bradipo chitarristico di No Sharks Allowed, il Madchester in odor di grunge di Burnout Girl (so che andrete a cercarla) o i sospiri 1992 di Unless I See You Again. E poi quella bizzarra entità titolata Set The Controls For The Heart Of Liverpool (và che titolo, eh?) summa teologica di due lustri di pop chitarristico inglese che ho sempre immaginata perfetta per qualche scena di Alta Fedeltà, magari quando Rob si rotola nel fango – sotto la pioggia – mentre cerca di non farsi vedere da Laura. Strano, per un figlio della Detroit più rumorosa. Forse anche poca roba per seguire il nostro a ritroso nei Majesty Crush, la sua prima band. Lo misi nei capienti e vanitosi cassetti dei molto amati (da me) et molto incompresi (dagli altri); quei cassetti che apri ogni tanto per vedere se stanno tutti bene e un saluto a casa. Dear Kate (su Witchcraft, del 2005) non lo comprai; con Vinita non ci sentivamo più.
Forse feci un errore (anzi due) ma sono sempre in tempo a metterci una pezza.
Non così Stroughter, morto il 1 febbraio 2017 assieme al suo talento.
Kevin Shields non pervenuto.

 

Michele Benetello


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