“Partiamo? Dai, andiamo. Ti passo a prendere oggi pomeriggio, alle cinque.” Dall’altra parte del filo, lo si capiva dal tono imbarazzato, la proposta preoccupava. Ma il fascino dell’avventura proibita è talvolta irresistibile. In quel caso lo fu anche per lei. Disse di sì, ma nessuno dei due sapeva bene a cosa. La decisione presa quel giorno avrebbe messo la parola fine alla loro giovinezza, ma ancora non potevano nemmeno immaginarlo; lo avrebbero scoperto qualche mese più tardi. A saperlo prima, almeno lui non si sarebbe preoccupato più di tanto. Era sulla strada da quando aveva diciotto anni, ormai ne aveva quasi trenta. Per la prima volta aveva un lavoro stabile, che gli permetteva di guadagnare bene, ma sentiva un’inquietudine che non aveva mai provato prima. Gli mancavano gli anni dell’università, quella spensieratezza disperata in cui si manteneva con lavoretti saltuari, scrivendo di musica, con qualche contratto semestrale in una radio importante e con i lavori estivi. Era pronto a tutto, in quel momento. Non partiva per andare in vacanza. Aveva in testa un pensiero strano: non era sicuro di voler tornare. Non sapeva ancora dove andare, letteralmente, ma sentiva che se avesse trovato la situazione giusta si sarebbe fermato, magari a diecimila chilometri da casa. Voleva cambiare, proprio adesso che per la prima volta aveva qualcosa di stabile sotto i piedi. Si diceva che era un pensiero stupido, infantile. Se lo ripeteva in continuazione. Ma continuava a farlo.

Giunsero in aeroporto che era tutto chiuso, mezzanotte passata da un pezzo. La mattina dopo osservarono velocemente le offerte last-minute e qualche ora più tardi si ritrovarono a noleggiare una macchina. In California. Atterrare a Los Angeles in piena notte fu un’esperienza incredibile; quello straordinario tappeto di luci che si distendeva sotto di loro gli ricordò mille immagini legate alla musica che era solito ascoltare. Pensò che una foto fatta in quel momento sarebbe stata una copertina perfetta. È un pensiero che fa ancora, a distanza di così tanti anni: quando vede un panorama, uno scorcio, un viso che gli piace, pensa immediatamente alla possibile copertina di un disco.

Nessuno dei due aveva mai guidato una macchina con il cambio automatico. Rischiarono di tamponare due volte mentre uscivano dal parcheggio della Hertz. Presero una stanza in un motel vicino all’aeroporto e decisero che la mattina dopo sarebbero andati verso sud. Era l’estate del 1996. Il problema si presentò il giorno dopo, quando ormai avevano imboccato la freeway numero 5: l’autoradio non aveva il CD ma solo un lettore di musicassette. Le stazioni radio in FM, scoprì con un po’ di sorpresa, trasmettevano soprattutto i classici del rock anni Settanta. Avevano percorso poche miglia ed era praticamente in crisi di astinenza: aveva bisogno della musica giusta.

Giunti a San Diego, come prima cosa cercò sulla cartina un negozio di dischi che ricordava essere uno degli spacci di riferimento della zona. Trovarlo costò qualche peripezia e una serie di smadonnamenti che sembrava di essere in Toscana, altro che California. La selezione di cassette non era fornitissima; rimase però colpito dalla bruttezza di una copertina con una grafica spartana e la foto di un delfino. Degli Imperial Teen aveva letto qualcosa su Melody Maker. Se ne parlava in termini entusiasti e in particolare si faceva il nome delle Breeders. Ai suoi occhi, il problema era che uno della band suonava nei Faith No More, aveva letto anche questo dettaglio. Lui odiava i Faith No More, ma amava le Breeders. Alla fine, si fece convincere.

Uscì dal negozio, infilò la cassetta in macchina e finì per ascoltare quelle canzoni per 14 giorni consecutivi. Gli piaceva la velocità e il suono di quella Telecaster. Gli piaceva che i due maschietti si alternassero alla voce con le due ragazze della band. Amava il fatto che sapessero spingere sull’acceleratore per poi, all’improvviso, togliere il piede dal gas. Rimase sotto quel disco come gli era capitato poche altre volte nella vita. Sorvolò sul fatto che quell’album avesse un titolo, Seasick. Pensava che i dischi di debutto dovessero avere solo il nome della band, ma se ne fece una ragione: avevano intitolato la canzone che apriva l’album con il nome del gruppo, del resto. Una scelta che, ai suoi occhi, gli aveva fatto guadagnare un sacco di punti.

La strada da San Diego li portò nel deserto. E poi di nuovo a Los Angeles, ma si fermarono quasi esclusivamente sulla spiaggia di Venice. E poi ancora più su, fino a San Francisco. Tanti chilometri, tante ore in viaggio, e una sola cassetta. A volte lasciava la musica in sottofondo, altre alzava il volume. Si accorse che quel disco funzionava bene in entrambi i casi. Non sapeva se piacesse anche a lei, aveva un certo timore a chiederglielo. Aveva paura che, se a lei non fosse piaciuto, avrebbe dovuto in qualche modo separarsene e tornare a quella maledetta radio.

Amava la semplicità di quelle canzoni. You’re One e Butch capì subito che erano dedicate a Kurt Cobain. La seconda, in particolare, gli sembrava suonare come una cover dei Beatles fatta dai Chills dopo aver ascoltato i Nirvana più pop. Un pezzo memorabile, insomma. Ascoltato oggi, fa ancora quell’effetto lì. Certe canzoni non invecchiano.

Imperial Teen, la canzone, gli faceva una strana impressione: la voce di Roddy si capiva subito che non era quella di uno abituato a stare in prima fila. Troppe fragilità, insicurezze, voglia di stare ai margini. La amava proprio per quello. In seguito si sarebbe ritrovato a pensare a quel brano ogni volta che avrebbe ascoltato la versione più eterea degli Yo La Tengo.

Ma ciò che lo conquistò davvero fu il tono quasi amatoriale dell’album: sembrava nato in cantina o nel soggiorno di casa. Nessuna pretesa. La semplicità autentica di chi suona due accordi, preoccupandosi solo di trovare la melodia giusta dove infilare un ritornello che, dopo due ascolti, non ti esce più dalla testa. Non sa ancora oggi se quel disco abbia avuto un ruolo nel cambiamento d’umore che provò in quel viaggio. Probabilmente fu la compagnia di quella ragazza a fargli apprezzare tutto in modo diverso, più profondo della musica stessa.

Il pensiero di tornare a casa non era più un peso, quella presenza al suo fianco lo aiutava a vedere e vivere le cose da una prospettiva nuova. Si sentiva leggero, come se si fosse liberato di un peso, pronto a tornare alla solita vita ma con uno spirito diverso. Sentiva di aver afferrato quell’opportunità fugace che gli era capitata per caso, e di non averla lasciata scivolare via.

Quella ragazza, quella musicassetta, non lo avrebbero più abbandonato. Quando decollarono per il ritorno, guardò fuori dal finestrino: la nebbia avvolgeva le colline a nord della baia. Pensò che sarebbe stata una copertina perfetta. Gli ricordava quella di un disco dei Triffids.

Cesare Lorenzi


Una replica a “(2-3-4-1) I remember my dreams (Fiver #12.2018)”

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