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Umberto Tozzi Tozzi (CGD, 1980)

Non so da che parte prenderla ma ci provo ugualmente, conscio che potrebbero essere le mie ultime ore su questo pianeta o più semplicemente su questo sito. Facile che uno (o più) dei ‘duri et puri’, di quelli verso i quali c’è sempre un posto prenotato nel Regno dei Cieli o sul catalogo Sarah Records, vogliano la mia testa o mi crocifiggano un gatto sulla porta di casa. Uno di quei ‘duri et puri’ che mi han fatto passare gli Abba ma sono altresì pronti con l’Agent Orange affinchè io non compia più crimini verso l’umanità. O verso l’indie. Mi immolo, invece. Come un Enrico Toti qualsiasi, pronto a lanciare 45 giri contro gli hipster con le caviglie sguarnite e la musica liquida random nell’iphone. Umberto Antonio Tozzi, nato il 4 marzo 1952. L’Umbertone Tozzi, diobono. L’uomo che scommetteva di arrivare primo in classifica solo con pezzi in minore, l’uomo che ne ha dette tante (parecchie anche imbarazzanti) e che aveva preso residenza stabile lassù, verso i Numeri Uno, prima di farsi furbo e girarla a Montecarlo. A proposito: è proprio con l’etichetta discografica di Lucio Battisti che il nostro esordisce tramite il 45 giri ‘Incontro d’amore’, prima di formare i Data e porre mani e plettro su quella ‘Un corpo e un’anima’ che vincerà Canzonissima del 1974. Il resto lo conoscerete tutti, mi sa. Uomo che, per almeno un lustro, ebbe una capacità melodica impressionante e un braccio destro geniale sebbene ancora poco conosciuto ai più come Giancarlo Bigazzi (più in alto di Mogol, nel mio piccolo Pantheon). Ma non vorrei farci e farvi nemmeno l’apoteosi della rivalutazione tardiva, come sta avvenendo un po’ ovunque verso qualsivoglia manufatto, che sia l’accanimento con il quale spingono Strangeways, Here We Come come un capolavoro superiore a The Queen Is Dead, o ad esaltare Claudio Baglioni quale cesellatore sopraffino di note (per me rimane Agonia). Ma ognuno ha le sue guilty pleasures, no? Tanto più che quest’album del lungocrinito torinese (disco altresì chiamato Poste 80, da noi quarantennali seguaci) non è nemmeno la porcata più grande che mi sono portato a casa, che se non sono arrivato agli Spliff di ‘Carbonara’ ai Trio di ‘Da Da Da’ invece eccome. Che poi, gli Spliff, accidenti. Musica demmerda ma un testo che era il Cabaret Voltaire di Zurigo e Tristan Tzara in erezione: io voglio viaggiare in Italia in paese dei limoni Brigate Rosse e la mafia cacciano sulla strada del sol distruzione della lira Gelati Motta con brio tecco mecco con ragazza ecco, la mamma de amore mio sentimento grandioso per Italia baciato da sole calda Borsellino e vuote totale percio mangio sempre solo”. “Percio”, cazzo. Oggi scoppierebbe una guerra diplomatica per dei versi simili, ma oggi siamo tutti più stupidi no? Tu cantami ‘sotto il sole, sotto il sole, di Riccione, di Riccione’ e magari ci vediamo in tribunale, ok?

Insomma, l’Umbertone! L’Umbertone e quel 1980 che se era appannaggio dei Giochi Olimpici di Mosca e della sua mascotte Misha è anche vero che già profumava di Mondiali di Spagna e Cucciolone al gusto di disinfettante per pavimenti. Un anno che divenne spartiacque tra una vita che avevo prima e una che non avrei più potuto avere dopo. Una nuova vita affrontata con End Of The Century sotto il braccio e l’adorazione coatta verso il riff di Stella Stai (l’ho mai detto che è il più bel pezzo mai scritto dalla Electric Light Orchestra? Sì?). Un 1980 di cambiamenti epocali: l’invenzione del post-it, ad esempio. O quel 2 agosto maledetto che io ricordo da un cortile polveroso e una radiolina a transistor. O l’altrettanto gravido 8 dicembre, quando Give Peace A Chance divenne Give Piss A Chance. Esce Il Nome della Rosa e viene ucciso Piersanti Mattarella. Pasqua giunge il 6 aprile, l’Irlanda vince l’Eurovision Song Contest con Johnny Logan. Noi schieriamo Alan Sorrenti e il Belgio i Telex. Te dici a volte, no? Esce Pac-Man, nel 1980. Anche noi usciamo – e per sempre – dalla civiltà, con la Strage di Ustica. Nasce Solidarnosc e muore (il 23 Novembre) parte dell’Irpinia. Si sciolgono i Led Zeppelin.

Quante cose mi succedevano attorno, quasi a mia insaputa, come se fossi stato uno Scajola qualsiasi. Io volevo solo andare al mare e ascoltare Do You Remember Rock And Roll Radio?. Ma gli amici mi dicevano che non era bella, non quanto Ti chiami Africa di Enzo Avallone quantomeno;  mentre i conoscenti furbi e scafati premevano per farmi ammettere che i Ramones erano finiti e Baby I Love You una porcata vergognosa. Da che parte dovevo stare? Io volevo solo andare al mare. Conoscevo – con fatica – gli X Ray Spex ma mi compravo Blondie e la Rettore, che ognuno fa con le donne che ha. Insomma, in tutto questo bailamme il Tozzi mi andava a schiaffare uno dei dischi più belli (e meglio suonati, c’ha un groove da paura) dell’italico pop. 8 tracce praticamente perfette, Polaroid nitida (Polaroid, Stella stai, dolce vento di foulard, visto mai visto mai) e irripetibile di quel mio 1980. Si comincia proprio dal singolone torrido, messo in apertura a trainare un parterre de roi che, oltre alla coppia d’oro Bigazzi/Tozzi, vanta Greg Mathieson, Lee Ritenour (“egraziarcazzo”), Barry Morgan, Zeke Lund, Les Hurdle, Geoff Bastow (il braccio destro di Moroder), Curtis Drake, Mats Björklund, Euro Cristiani. Il tutto assemblato agli Union Studios di Monaco. L’avrete sentita tutti e in ogni dove Stella Stai, strimpellando a ritmo il piedino (dolce piede sul mio gas…) sul pavimento e seguendo il ‘gnao gnao’ della chitarra, semplicissimo ma assai efficace. Cercammo di trovare spiegazioni adatte a quel testo sarcastico e pieno di allitterazioni complicate senza sapere che ci sarebbe venuto in aiuto qualche anno dopo proprio quel volpone del Giancarlo (lo ribadisco: un genio. E vi esorto a far Vostro quel Giancarlo Bigazzi, il geniaccio della canzone italiana, di Aldo Nove. Bompiani 2012) riducendo il tutto ad una notte sfrenata con un/a trans. Sospirarti di più, certo. Parte Stella Stai e io ci sento odori di estati torride, pubblicità di gelati stampati su pezzi di alluminio, arterie stradali d’agosto, una maglietta dei New Order e fame d’amicizia che scivola scivola scivola scivola scivola. Frenano a 100 all’ora in autostrada con A cosa servono le mani, pop rock internazionale con un gancio alla Supertramp e un cambio d’armonia che solo i grandi possono immaginare. A cosa servono le mani non saprei, suonavo il pianoforte su di lei. Voglio uscire stasera, che sia primavera o no. E io mi vedo già in un night club con Barry Manilow, Bette Midler e Il Gian che mi spiega quel ‘vorrei strappare marjuana dalla terra, vorrei la pace e poi vorrei la guerra’. Calma ha la base di un funkone da paura per l’altezza di un rock americano. Diviso due. Il Sommo Paroliere ci fa uno spleen che manco i Cure di Pornography (Vento e odio la gente domani mi arrendo e odio anche te). Fermati allo stop è Il Mago di Oz delle periferie, litania marzolina che sa di soul blues candeggiato da un carillon pieno di falsetti. Ma il botto arriva con Dimmi di no, rocchettone ignorante che – fosse stato cantato da qualsiasi altro vostro beniamino a scelta – avreste tatuato sui glutei. “E domandami come va, son felice solo a metà, come questa mia sigaretta, che non brucia come vorrei, come uno che ha preso sei”. L’ho già detto vero che Bigazzi era un genio? ‘Che non vorrei dimenticarmi di rendervi edotti a riguardo. Ma anche Les Hurdle e il suo basso si superano in un sferragliar di groove. Gabbie è l’unica canzone al mondo dove, nel suo lexotanico avanzare si cita la legge del menga; e case popolari su di me, due genitori o forse tre. FM americano al suo meglio e sfido qualsiasi paradisiaco autore ad inserire un assolo di chitarra così forsennatamente Al Jarreau all’interno delle sue terzine. Ma non è mica finita, cari adepti al culto: Nemico Alcool – oltre ad essere stato il mio must del 1984 – ha un tiro da paura e da luna park ed un’ergersi pericolosamente vendittiano; in un mondo migliore singolone da quattro milioni di copie e sussidiario illustrato del perfetto compositore italiota. I fiati da marcetta che si palesano a metà del pezzo sono da Grammy Award, sarebbe d’accordo anche la Pausini. Spero. Insomma, non è reato pensare che, su questo disco, l’accoppiata Bigazzi/Tozzi s’avvicini pericolosamente alla perfezione. Settembre è un mese classico per dirsi addio, cinguetta con un falsetto asmatico prima di chiudere con Luci ed Ombre e porgere l’altra guancia, mettendo il sigillo ad uno dei più bei dischi di pop rock internazionali mai editi nel nostro paese. Resoconto di un incidente avuto dallo stesso Tozzi in Toscana viaggia sopra cinque intensi minuti che cominciano alla Sigur Ros e si interrompono in una crasi tra Dancing With Myself e un country rock da rodeo. Schizofrenica senza aver paura di dimostrarlo.

Tozzi gira, mira e tira quasi ininterrottamente da 38 anni sul mio piatto, forse un motivo sufficiente per togliermi l’amicizia da Facebook, molto più prosaicamente un disco pressochè perfetto nel suo genere. Ma anche nel mio. Dopo questo disco – apice di una carriera da 80 milioni di copie – non vi sarà mai più un Tozzi così ispirato, sebbene Notte Rosa (del 1981) oltre alla balearica title track potesse vantare quella meraviglia chiamata Roma Nord e uno spleen erotico che si sparge lungo l’intero disco. Ma non vi sarà più un Tozzi così. E anche io non mi sento molto bene, da quel 1980.

Michele Benetello


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