Baikonour – For The Lonely Hearts Of The Cosmos (Melodic, 2005)
Fibrillante tempo di Campionati Mondiali, finalmente. Grazie all’assenza della nazionale italiana ci potremo godere una kermesse scevra da fanatici dell’ultima ora, patrioti del week end, finissimi conoscitori di calcio part time e urlatori da salotto vari. Quindi godibilissima per osservare una manciata di partite in compagnia delle nostri migliori amiche (le birre) senza essere stalkerati da quei conoscenti che diventano puntualmente dei Gianni Brera ogni quattro anni. Ah, i Campionati Mondiali! Gli ultimi propriamente intesi (per quanto…) che poi in Qatar sarà pianto, Uefa, FIFA e stridor di denti assortito, con buona pace della gloriosa Coppa Rimet.
Mi ritrovavo per caso l’altro giorno a far congetture, intrecci e strani diagrammi per vedere se il Senegal avesse qualche chance di portare avanti le proprie istanze pallonare quando – per i soliti astrusi procedimenti mentali – mi sono fermato a pensare quanto (da piccirillo) avessi caparbiamente atteso una edizione sovietica, magari in bianco e nero. Magari durante i gloriosi tempi della Guerra Fredda, con la DDR testa di serie e Oleg Blochin Pallone d’Oro 1975. Udirne l’inno, osservare la manina di Brezhnev sventolante come quella della Regina Madre, avvertire il passo delle truppe che marciano spedite a bordo campo e tutta la letteratura a seguire. Programmi spaziali compresi. Da lì – appunto – a Baikonour è stato un attimo. Non solo perché fosse la base di lancio più antica e misteriosa al mondo, con il suo leggendario Cosmodromo, piattaforma per ogni testa rivolta all’insù, che fosse di umano, cane o scimmia. Nemmeno per la catastrofe di Nedelin, tenuta nascosta fino al 1989 ma che vi esorterei a scoprire dacchè storia tra le più interessanti e celate degli anni 60.
Insomma dal Kazakistan ad un disco che avevo letteralmente sepolto sotto pile di altri piccoli reattori a combustibile fossile è stato un attimo. Ho preso la scala, inerpicandomi fino alle più etereee altezze degli scaffali setacciando con certosina pazienza galassie di polvere fino al compimento della missione. Era lì, bello come lo ricordavo, con la sua copertina alla Hawkwind e il suo contenuto bombarolo e kraut. Ne ricordavo il contenuto ma non l’autore, avendo completamente dimenticato se si trattasse di un gruppo o di un’anima solitaria adusa a smanettare transistor e loop. In tutto questo non avevo assolutamente dimenticato il Gruppo H, quello con Polonia, Colombia, Giappone e – appunto – Senegal, cominciando a far di conto. Stavo combattendo su più fronti, con il sudore che mi imperlava la fronte, ma non ero intenzionato a mollare, mi attendevano trenta giorni di stadi dai nomi improbabili e un disco bellissimo.
Così, con For The Lonely Hearts Of The Cosmos nel lettore e una matita a tirar frecce tra i trentadue partecipanti nell’altra (a proposito, vero che il Gruppo D è favoloso?) mi stavo dimenticando le sigarette. L’età è una brutta bestia, ti fa persino accantonare l’accendino. E dischi simili. Me ne sono immerso invece, tralasciando per un attimo le gesta di Diop, Manè e Koulibaly, per ritrovare un lavoro che non ha perso un’oncia del suo splendore kraut. E pensare che Jean- Emmanuel Krieger non aveva nulla a che fare coi missili. Lui, nato nella aristocratica Versailles ma residente a Brighton, il cosmo ce l’aveva in mente quando ha assemblato – con l’aiuto di pochissimi amici, tipo Lee Adams degli Imitation Electric Piano – il progetto Baikonour. Un progetto dove era riuscito a far convergere strani sibili musicali dal passato, che fossero gli stessi Hawkwind dei quali si disquisiva poco sopra, ai Neu, a certa ripetitività da musica sacra indiana, a spirali psych dei sessanta, all’acid rock; tutto frullato assieme per un risultato che in questi 11 brani non fa prigionieri. Già Lick Lokoum, posta in apertura, smazza il lotto con un’aria da My Bloody Valentine remixati da James Bond su un piroscafo per Tangeri. Master Musicians Of Baikonour & Space Kraut. Drumming analogico e spirali di organi chiesastici avviluppate su groove possenti di basso. Come se gli OS Mutantes si fossero accasati su Creation sotto l’egida di Weatherall e Kris Needs. Cosmodromi, proprio. Coltan Anyone? è un petting spinto in attesa di Proto-Coeur, superba bomba psych nel suo monolitico percuotere di batteria, anticipatrice di tutto quel bailamme psichedelico che va dagli Oscillation ai Follakzoid tanto che persino le 32 squadre potrebbero apprezzarla in un trasversale inno personale per questa ventunesima edizione. Vi piacessero i Loop o i Telescopes chiamatemi, che facciamo colazione assieme dopo una notte di ascolti coatti. Rusk Plasmique concede respiro, ormeggiando dalle parti dei Banco de Gaia, intermezzo ambient che conduce a Hoku To Shin Ken, mantra metallico in odor di Pink Floyd (Set The Controls For The Heart Of The Cosmos) per anime nobili stritolate da passioni carnali. Krieger si supera nel costruire cattedrali di strutture perfettamente palindrome. 60 to 0 ci conduce dalle parti degli Scala e dei Laika (ecco, tout se tiens) mentre 2/3/74 oltre a chiamare in causa l’esegesi di Philip K. Dick profuma di beat italiano (strumentale, peculiarità dell’intero album), di nu-disco e di prog meno onanistico. Tutto assieme. Sentir sferragliare la sezione ritmica a metà del pezzo è impagabile e davvero ci vien voglia di immaginare cosa avrebbe potuto farci Andrew Weatherall con questi undici brani.
Sento che il tempo mi sta sfuggendo dalle mani dacchè ho ancora un paio di Gironi da sviscerare appieno e due probabili semifinali da incrociare, ma come faccio a lasciarvi privi della meraviglia di Oben Beg (Mk2)? Un pezzo che sa da Lemmy, discoteche e viaggiatori spaziali. Dove le chitarre grattuggiano e la batteria resta catatonica lungo un unico drumming. Dove l’ambient si fa La Dusseldorf e la dance diviene iperbarica al limite dell’autocombustione. Carillon, bassi tellurici, mod-ernismi e scariche elettriche rendono perfettamente il senso del genio di Krieger. Statica e Interquaalude conducono lungo il mare della tranquillità e verso la fine di un disco bellissimo. Echi di Alice Coltrane, di raga indiani, di pastorali e campionature si innestano su visioni Kevin Shields con piccoli frammenti di suono. Che deflagra definitivamente in Ultra Lazuli, ovvero Aphex Twin che prende in mano una chitarra e prova a scrivere una canzone dei Doors o dei Love. Otto minuti e venticinque secondi di acid rock, elettronica, Ray Manzarek e Elektra Records. Subliminalmente sublime nel suo dispiegarsi da dervisci rotanti.
Non riuscirà più a ripetersi su cotante altezze, il buon Krieger, visto che You Ear Knows Future (nel 2008, sempre su Melodic) sarà seguito nonchè ultimo sussulto non all’altezza di questo piccolo bignami di emozioni. Un campionario di suoni e rimandi ancora celato al mondo che con nemmeno due euro potrete far vostro. Probabilmente lo stesso importo che andrò a puntare sul Senegal.
Michele Benetello