Springsteen non mi è mai piaciuto granché. Apprezzo però la sua carica indefessa e il suo entusiasmo perenne, anche se spesso e volentieri queste indubbie doti finiscono per gonfiarsi in retorica eclatante. Che poi devo essere sincero, a me la retorica alla fine piace. La trovo autentica, a differenza di altri comportamenti che innescano un freno a mano permanente impedendo di mostrare appieno entusiasmi ed emozioni. Quindi Bruce, in fondo, va bene così com’è. Quando attacca la pompa magna di Born in the U.S.A. così come quando si inventa di suonare dal vivo una versione di Dream Baby Dream per pianola e voce, canzone che qualche anno dopo decide anche di registrare e piazzare dentro un disco in studio, High Hopes.
Di recente me la sono vista spuntare a un certo punto di American Honey. Ovviamente per quanto mi riguarda è stata una delle scene più belle del film.
Quando scrivo utilizzo molte parole, troppe. Per lavoro, quello vero, mi capita a volte di stilare relazioni. Robe anche abbastanza tecniche. Un giorno il mio capo mi ha preso da parte e mi ha rimproverato – tra il serio e il faceto – di essere troppo aulico. Ha detto proprio così: aulico (cifrato: “di linguaggio o di stile, nobile, collegato a grandi occasioni o a personaggi sommi”). Risultare aulico quando stendi l’analisi di un bilancio societario immagino non sia una cosa da tutti e soprattutto non sia una faccenda che possa definirsi propriamente normale. Ma non ce la faccio, quando ho a che fare con le parole non riesco a fare altrimenti. E’ che le parole mi piacciono, e il dono delle sintesi non mi è stato dato in dote assieme alla penna e al calamaio.
Di converso per quanto riguarda la musica apprezzo il minimalismo.
I Suicide ad esempio. Loro utilizzavano poche note e ancor meno parole. Quando li ascolto capisco che possono bastare poche parole per farti sentire a casa.
Ci sono tantissimi gruppi che ammiro e ancor più numerosi sono i musicisti che stimo. Dovessi però ridurre il campo ai miei preferiti in assoluto, rispondendo così a una domanda che mi è stata posta non so quante volte negli anni, farei molta fatica. Peraltro non è che avrei tutta sta voglia di fornire un riscontro a un quesito tanto impegnativo. In ogni caso l’epoca in cui stilare classifiche mi appassionava è finita da un pezzo, casomai sia mai cominciata. Più o meno da quando ho smaltito la fotta da playlist innescata al tempo dal secondo Hornby, circa 1996.
Per quanto riguarda la musica piuttosto che esternare la passione per tanti singoli nomi mi interessa più coltivare l’ossessione per quei pochissimi che sono stati in grado di accendere la mia fantasia in modo importante e, soprattutto, duraturo.
I Suicide sono senz’altro tra questi pochissimi.
I motivi per i quali la coppia Alan Vega/Martin Rev mi ha intrigato così tanto sono plurimi. Credo che l’input di partenza sia stato il loro ruolo di drop out nella NY degli anni 70, uno dei luoghi culto assoluti del mio immaginario. La Bowery, Alphabet City e la Avenue D, il Maxwell e il CBGB’s, il Chelsea Hotel, la Ork Records, Johnny Thunders e Richard Hell, Television, Talking Heads, Ramones e Blondie.
Please
Kill
Me.
Il primo album dei Suicide contiene alcune delle canzoni che stanno alla base della mia formazione, musicale e non. Potrei dire che in mezzo ai solchi di plastica nera dei primi due album dei Suicide ci sono io, letteralmente. In tutto e per tutto. Gioie e dolori, dubbi e certezze.
L’ossessione paranoide compressa nei dieci minuti di Frankie Teardrop, il rockabilly dopato di Ghost Rider che custodisce in se il passato, il presente e il futuro del rock’n’roll, divenendo da subito l’elemento fondante del mio singolare e deviato concetto di musica su cui e con cui è possibile, doveroso, anzi indispensabile ballare. E poi Cheree. La canzone che rende semplice una faccenda che ho sempre trovato complicatissima: una dichiarazione d’amore. La melodia che lucida il cristallo su cui si appoggiano una linea di synth invitante e una drum machine elementare. Tutto ultra minimale e, apparentemente, semplice. Come ogni cosa che i Suicide hanno scritto, suonato e cantato.
Nei rapporti interpersonali ci sono certe cose, anzi direi molte cose, di più: una infinità di cose, che non hanno bisogno di spiegazioni. Faccende in cui è inutile perdersi in particolari, districare nodi e rifinire i dettagli. Soprattutto se la persona con cui hai a che fare è una di quelle che ti conoscono bene, e tu conosci bene lei. Dovrebbe bastare uno sguardo per capire. Per capirsi.
Invece no, personalmente ho sempre avvertito ineluttabile e pressante la necessità di costruire castelli di parole, grattacieli di concetti e sovra strutture che poi finiscono inevitabilmente per chiudere trappole. Non se ne esce. Non ne sono mai uscito. Ho sempre scelto la complicazione. Le cose semplici non sono mai riuscito a gestirle. Ho sempre spiegato troppo fornendo chiarimenti non richiesti a persone cui sarebbe bastato uno cheree baby, I love you e con loro mi sono imbarcato in crociate dal piglio partigiano con l’idea di conquistare spazi senza accorgermi che quegli spazi erano già miei. Mi appartenevano da sempre.
In fondo, mi rendo conto, bastano poche parole e una musica che le scaldi per stare bene.
Semplificare.
Bianco e nero.
Bianco o nero.
Quel che davvero occorre è solo una canzone della buonanotte, una di quelle che servono per chiudere le giornate e non pensarci più. Una canzone come questa, che tra le tante canzoni d’amore che conosco è la più bella di tutte.
Dream baby dream, forever and ever
keep those dreams burnin’ forever
keep that flame burnin’ forever.
Arturo Compagnoni