Jih – The Shadow To Fall (Jungle, 1986)
Non sta scritto da nessuna parte che si debba sempre essere perfetti, focalizzati sul pezzo, integerrimi (beh, magari anche sì…) e devoti all’obiettività. Sono quelli bravi, a far così. L’onesta manovalanza, i gregari, i portatori d’acqua hanno un sacco di manfrine, ripensamenti, cadute di stile, vergogne occulte, paturnie e figurine stampate male. Di quelle che non appiccichi su nessun album, perché nessun album è atto a contenerle. Così, anche chi scrive, vista la contagiosa Magnificent Obsession (notate la citazione dotta, please) verso gli Associates, negli anni si è andato a setacciare tutto un sottobosco nel quale si potesse ascrivere la coppia d’oro MacKenzie/Rankine. Non è stata nemmeno una gran fatica, a dirla tutta, vista l’assoluta mancanza di coraggiosi studenti e ancor più assoluto vuoti di manufatti atti a certificare l’assioma. E se della regale magniloquenza di Sulk s’è scritto in ogni dove, trovando seguaci eccellenti (da George Michael a Naomi Campbell) è anche vero che pochi, pochissimi prenderanno da lì per entrare in classifica, figuriamoci per cercare di ricrearne le costose (in termini sonici) atmosfere. Delle due l’una: o ci provavi pedissequamente, e allora dovevi tornare a chi mise lo spermatozoo primigenio sulla coppia (un’altra coppia: i Mael) oppure provavi a prendere in prestito la visione decadente e la puntigliosità sonora per farne ‘altro’, conscio che avresti potuto essere esposto al pubblico ludibrio fino alla fine dei tuoi (modesti, invero) giorni. C’era una terza alternativa, la più bieca, quella che negli ultimi anni ha devastato intere generazioni, Ebola in 4/4 che non ha risparmiato nessuno e nessuno ha cercato di fermare: diventi una tribute band, magari tuo malgrado.
Credo che a Grant McNally la terza opportunità andasse benissimo, e – soprattutto – fosse scevro di quella forsennata e bipolare ambizione che il suo nume tutelare (Billy Mackenzie, che diamine! Chi altro?) aveva disseminato in una carriera che, al tempo dell’uscita di questo disco, era già sufficientemente fottuta in una discesa libera di patimenti e dissennati passi falsi. Quale essere umano sano di mente avrebbe potuto, nel 1986, prendere a modello gli Associates per edificarvi sopra una carriera discografica? Vedo che siete tutti d’accordo con me. The Shadow To Fall è quintessenzialmente una brutta copia degli Associates, chiariamolo subito. Ingenua, caracollante, scevra di ottave, piena di buona volontà ma conscia che dinanzi al sovrano ci si può solo genuflettere cercando di non sbucciarsi le ginocchia, altro che togliergli il trono da sotto il culo. Una brutta copia appunto, né più né meno; un tentativo di imitazione (di omaggio, meglio) senza la grandeur, senza i ricami chitarristici di Alan Rankine, senza la vastità degli arrangiamenti alla Scott Walker e – soprattutto – senza la tensione che rendeva grandi i pezzi di ‘quei due’. Eppure, da non crederci, vi è Dave Ball che ne produce metà; Howard Hughes (già braccio destro del Billy in quel leggendario pasticcio chiamato Perhaps. E un giorno – giurosuddio – qualcuno dovrà raccontare la vera storia di quei nastri spariti sul più bello); Steven Reid (altro sodale); due fratelli MacKenzie (John e Jimmy); Virginia Ball e Martin McCarrick. Tu chiamali – se vuoi – turnisti ma riunione di famiglia andrebbe meglio.
Questo Basquiat vergato dall’ultimo dei teppisti di una scuola periferica esce nel 1986, a giochi ormai fatti. L’esposizione mediatica di Party Fears Two ha ormai 48 mesi sulle spalle e una plètora di scelte sbagliate ad immobilizzarne le caviglie e le royalties. Gli Associates comunemente intesi non esistono più e pure noi eravamo in piena crisi, per questo. McNally proviene anch’esso da Dundee, conosce Billy e la sua famiglia da un po’ di tempo e ha vaghe ambizioni di cantante. Chiede aiuto. Lo ottiene. La band fondamentalmente non esiste ma al Grant serve una sigla per confondere un po’ le acque e non dare in pasto ai leoni la sua religiosa devozione verso gli illustri concittadini. Ha idee, dice, e un santino ululante in tasca. Che qualcuno lo benedica, signoriddio! Non sarò certo io a farlo ora, da queste colonne, pur avendo in saccoccia l’intero (ma risicato) scibile di questa congrega di bucanieri da villaggio vacanze, simpatici e guasconi. The Shadow To Fall è ironico, ha il fiato corto, prova a vestirsi elegante con gli scarti della Caritas, sfiora l’imbarazzo, cerca di arrampicarsi su vette altissime ma non arriva nemmeno al campo base. Eppure fatti non foste a viver come bruti ma per seguire Billy e Alan. E allora passate 30 minuti a sorridere e far di conto, oppure buttate quel cinquino e riponetelo adeguatamente vicino alla casa madre o ‘nel quarto cassetto verso il basso’, magari con la pecetta di tentativo mal riuscito.
Insomma, non è bello ma piace, perlomeno a sprazzi. Piace per il coraggio, l’ingenuità, la totale mancanza di pudore. Piace per la scrittura zoppicante e assolutamente derivativa. Piace per l’angst truce riverberato da stratificazioni d’archi di Big Blue Ocean, piace perché non si vergogna d’anelare ai peggiori passi di Perhaps e This Gift è qui per dimostrarlo, raro caso in cui si faccia meglio del vascello fantasma. Piace per il Bowie declinato The Affectionate Punch della title track, piace perché – alla fine – McNally c’ha una voce che lèvati ma serve poco essere un Maradona se stai giocando a Subbuteo. Piace meno per l’unica idea spalmata su 9 tracce che sa comunque farsi luciferina e drammatica alla bisogna, come il post punk vulcanico di As U Fall dimostra con le sue chitarre Rankiniane, tensione inespressa che un brividino ancora lo provoca. O la solarità wave di Let The Sun Beat Down On Me, dove si cerca il distacco da ‘chi-sapete-voi’ tramite un sax malandrino e una vaga sensibilità pop riconducibile a degli umbratili Wham e similari. O Come Summer Come Winter, frizzante, androgina e subdola nel ricreare una nostalgia fuori tempo massimo anche per una macchina del tempo come questa. Un bel pasticcio, vero? Ne sono conscio. The Shadow To Fall è un fast food deserto e con le pietanze fredde eppure invoglia come un Overlook Hotel qualsiasi, ricoperto dalla neve e abbandonato al proprio destino.
Non avrà futuro questo suicidio commerciale ampiamente annunciato, ‘che se della casa madre si erano perse le tracce figuriamoci quanto avrebbero potuto interessare dei falsari, per quanto simpatici proprio per la loro imperizia. Chiuderanno senza ritegno, gli Jih, quando – nel 1988 – getteranno la maschera con l’ultimo respiro di discografia. Take Me To The Girl il titolo di quel 12” ruffiano che certifica – se mai ce ne fosse stato bisogno – il divenire una vera e propria tribute band, dacchè proveniente dal repertorio del Billy. Che, guarda caso, produce godendosela un mondo a rifarsi il verso e i coretti. Divertimentificio imbarazzante che non conserva un grammo della magniloquenza dell’originale, ma noi ci teniamo anche le adozioni, mica solo i figli dei nostri lombi.
Insomma, The Shadow To Fall è un disco che piace solo a me. Credo.
Michele Benetello