Filipponio – Per chi vuol capire (Fonit Cetra, 1977)
Alla fine l’unica cosa che veramente mi importava era il nome. Il nome e come suonava mentre te lo rigiravi in bocca come una Big Babol al bitume. Filipponio. Fi-Lip-Ponio. Sentire lo slalom sulle doppie, l’allitterato parkour, la semplicità geometrica seppur curva di consonanti. Un nome concentrico. Sapeva da fumetti, da piovre e rotonde sul mare, da cartoni animati tipo “Tofffsy (con tre effe – ndr) e l’erba musicale” (questo non ve lo ricordate, vero?); lo vedevo salire su un palco con le mani in tasca e quei riccioli ribelli e partivo per la tangente, chiedendomi chi avesse dato una chance a quello strano gigolò di borgata. Gli mancava il borsello a far pendant con quell’aria dinoccolata a metà tra un lettore di Babylonia e un militante di Lotta Continua scevro di Parka e colpito da amnesia. Non mi piaceva nemmeno la musica che proponeva, ad essere sincero. Io ero in piena pubertà, cercavo i soldatini Atlantic e ravanavo i 45 giri degli Shocking Blue in collezioni altrui; sorbirmi quella triste e noiosa miscela cantautorale che sapeva da night club, femmine procaci, lenzuola spiegazzate e fumo di sigaretta non era ascrivibile alle mie passioni dell’epoca. Nemmeno l’Olanda di Cruijff e Neeskens era tra le mie passioni dell’epoca, ostia. Figuriamoci Donato Filipponio, cantautore sciupafemmine ombroso e in odor (lontano odor, lontanissimo) di Paolo Conte che – per un brevissimo istante – verso la seconda metà degli anni settanta, ebbe un guizzo di notorietà. Mi guardavo ridendo i suoi baffi tra Freddie Mercury e Sandro Mazzola, ascoltavo tutti i filamentosi (con l’accento su lamentosi) birignao gutturali che proponeva e poi passavo ad altro, che fossero Dee D. Jackson, Sandokan o la solita interminabile et solitaria partita al Giocagoal.
Non se lo filava quasi nessuno e lui, di rimando, quando si presentava (raramente invitato, sia chiaro) a quelle insulse trasmissioni tipo Saint Vincent o La Gondola d’Oro rispondeva a tono, esibendosi piacione con noiosa noncuranza e un sorriso caro ad un altro Donato: Bilancia. Pareva un Califano bisex. Stessa voce ombrosa e al gusto catrame, solita sigaretta, identici pantaloni svolazzanti, stessa camicia da mandrillo di riviera pronto a vantarsi di copule multiple e inenarrabili. Amava Brèl e Aznavour invece, il nostro, e io ci misi anni e anni per riuscire a trovare qualche reperto ascrivibile al suo canzoniere, che mica siamo nati con Discogs tra le mani, ‘noi che scavavamo l’oro nel Klondike’. Non era roba da Anima Mia, non era roba per abbronzate nostalgie in fascia protetta di Carlo Conti. Non era (ed è) nemmeno roba per Techetechetè, quella trasmissioncina Rai che ogni tanto un brividino te lo provoca. No, Filipponio era e rimane un desaparecido della musica italiana, completamente rimosso e dimenticato. Non che si sia adoperato tanto per farsi ricordare, lui e la sua avventurosa vita, se persino le notizie della sua morte risultano frammentarie e di difficile reperibilità. Di Filipponio, madre autoctona e padre greco, rimangono solo una manciata di dischi (6 album per la precisione) e una sequenza di canzoni umbratili, equivoche e crepuscolari. Un po’ – appunto – Califano, un po’ chanson française, un po’ night club al limite della legalità.
“Musica da Pincio”, la chiamano dalle mie parti. Roba da divanetti sdruciti e smagliature di calze, da rossetti famelici e whisky torbati sorseggiati in penombra. Roba da peli su petto abbronzato e orologi da un chilo; roba da piste da ballo (e non); roba da Francis Turatello e Sammy Barbot. Roba da donne problematiche, in pratica. Roba che gli americani mica erano capaci a farlo così l’amore, con i loro dentoni scintillanti e i Burt Reynolds. C’avranno anche avuto il groove gli yankee, ma a far capitolare una femmina di notte, questi marpioni della canzone italiana erano imbattibili. Pensare che i priapici satrapi d’oggidì sono stati costretti a passare dal Califfo a Biagio Antonacci qualche turba te la provoca eh. Blu blu l’amore è blu e quindi è ovvio che poi ti serve la pastiglietta dello stesso colore se non hai un substrato sonoro che ti aiuti nella missione.
Ognimmodo non siamo qui per farne una questione di tacche sulla pistola (scusate) ma per passare qualche minuto scambiando due chiacchiere su un tizio che esordiva nel 1976 con Una Sigaretta Fumata In Due per la FMA, etichetta di Federico Monti Arduini (per tutti: Il Guardiano del Faro). Ma riesce a far di meglio l’anno dopo quando becca la canzone della vita o quantomeno di una porzione della stessa, quella notturna. Pazzo Non Amore Mio è contenuta su questo Per Chi Vuol Capire, album che feci mio qualche anno fa alla modica cifra di 3 euro tramite una matrona che avrebbe potuto benissimo essere stata una vittima del Filipponio, pronta a svendere cotanto senno assieme a originali reperti d’epoca siglati Branduardi, Jannacci, Conte, Vecchioni, Tofani. ‘Che io sarò anche esterofilo ma c’ho i piedi ben piantati nello stivale. Raccoglievo ellepi come dinanzi a un tiro a segno e guardavo la svanita beltà di quella donna che si stava disossando la collezione vinilica. La osservavo di sghimbescio e mi facevo delle domande maliziose mentre la pila si innalzava. Erano suoi o di un ex amore? Perchè un banchetto zeppo solo di ellepi italiani e francesi? Chi era, la Mata Hari della Ricordi? La Theda Bara della Pathé Marconi? E perchè quegli occhi tristi bistrati da un mascara totalmente anni settanta e forse proveniente proprio da quel decennio? Non aveva nemmeno una borsetta dentro la quale inserire la polverosa mercanzia, ma sono uomo previdente et premuroso e non mi persi d’animo. È a casa che innalzai un film a mio uso e consumo, tramite una infruttuosa ricerca in rete. Poche, pochissime le notizie riguardo Filipponio. Avevo più ricordi di seconda mano io che seri dati oggettivi quell’internet che quando ti serve davvero non c’è mai.
Tocca dunque rimetter sul piatto Per Chi Vuol Capire e accendersi una sigaretta sgualcita con un aplomb alla Goemon. Che è il braccio destro di Lupin, non il rapper. Avvicinarsi a Filipponio non è semplice, si corre il rischio di liquidarlo come un Franco Califano in seconda, buono per tardone con la rosa sgualcita tatuata sul seno e l’anellino all’alluce. Vero, ma c’è di più. Poco, ma c’è. C’è uno spleen latente, una tradizione armonica tutta italiana che va da Bruno Lauzi a Luca Carboni, una voce roca fuori tempo massimo. C’è un disco assolutamente non ascrivibile al capolavoro e anzi. Fermo in quei mediani anni settanta, di quelli col Super 8 e la Fiat verde bottiglia, di quelli che persino l’austerity riuscivi a viverla come una elettrizzante novità a colori. Insomma, sto facendo di tutto per non parlare del disco, relegandolo ad una Polaroid sonora di quel decennio, ed è facile che me lo demoliate a mazzate, con comprensibile ragione. Ma a me mancano quei personaggi borderline, di quelli che ti chiedi come potesse davvero essere – allora, in quegli anni – la discografia per avere una visionarietà e un’incoscienza simile. Mi mancano come l’aria le storie sordide o soltanto sfortunate. Mi mancano Fanigliulo, Alfredo Cohen, Enzo Maolucci, Claudio Daiano, Leo Nero. Persino Rossano (che storia truce, ragazzi), Alessandro Bono (uno che prenderà parecchio da Filipponio) e Stefano Rosso. Tutta gente che (chi più chi meno) ha annusato la spazzatura e le briciole dello show business, rimestando nel torbido con la vita, con i pensieri o con le parole. Le omissioni no, mai.
Mentre gira gracchiando rimango con quell’idea primeva che mi colpì dal tubo catodico (Saint Vincent o La Gondola d’Oro? Oppure le retrovie di un Festivalbar? Non lo saprò mai). Per Chi Vuol Capire è un disco che – musicalmente – non lascia segni tangibili, ma ha la grande forza di estrarre ricordi. La title track gratta su un cantautorato vicino a Andrea Mingardi, Tu Mi Confondi prova ad ampliare lo spettro armonico su un’ingarbugliato canovaccio che il primevo Vasco Rossi deve essersi studiato alla perfezione. Il Gioco Della Torre imbarazza con uno spoken word alla Buonasera Dottore, teneramente ingenuo e sopra le righe nel giocare il ruolo del playboy su un sottofondo alla Fausto Papetti. Manca Sidney Rome o Nadia Cassini per estrarre il bingo. Pazzo Non Amore Mio è la sua Tutto Il Resto È Noia mentre Silvia E Andrea continua la ricerca di un cantautorato smarrito e Fuoco si immola su un letto a baldacchino senza infamia né lode. Buono invece il soul funk di L’Avventuriero (estratto anche su singolo), slow motion che avrebbe veleggiato bene sopra un Battisti londinese con uno schioccar di dita ‘quasi’ nu disco. Riesce – da non crederci – a far di meglio la sorprendente Disamore, sublime nel ricomporre uno spleen da distruzione affettiva tramite una coda di sassofono luciferino. Forse il brano più incisivo (lo inserirà anche in Sensazioni Precise, del 1980) di un disco che oggi è solo materia per nostalgici o amanti del trash peloso.
Siamo sinceri e ripetiamoci ad lib: mica è un capolavoro codesto, eh. Nemmeno un gran disco, nel senso comune del termine. Non si anela a De Gregori, non scherza con Gaetano, non si Dalleggia a centrocampo. Si parla di donne, orizzontalmente e verticalmente, con tutte le conseguenze del caso, misoginia compresa. Le uniche vaghe reminiscenze sono – principalmente fisiognomiche, ne convengo, ma anche per una certa maschia noncuranza nell’estrarre le parole – con Paolo Conte e con il Francone più volte citato. E chissà se hanno mai girato assieme i due, magari al Jackie O’, dove il Califfo aveva preso stabile residenza, iniettandovi pure capitali solidi, liquidi e gassosi. Me li sarei visti bene, impavidi nel bloccarti gli ormoni della crescita distruggendo la tua autostima dinanzi ad un agglomerato così tenacemente anni settanta. Polvere sei e – erm – polvere ritornerai.
Ritornerà sulle scene anche Filipponio, riciclandosi brevemente Italo Disco (Love Italiano è un 12” che solo i tedeschi tutto Fanta & Cappuccino potrebbero apprezzare, sin dal titolo) prima di sparire in un anonimato implacabile e in un destino cinico e baro.
Donato Filipponio muore nell’aprile del 1995, pare a causa dell’Aids. Della donna bistrata non si hanno più notizie.
Michele Benetello