Marxman33 Revolutions Per Minute (Talkin’ Loud, 1993)

Lo sapete riconoscere un bel disco? Sempre? Tutte le volte che vi capita sotto le mani o le orecchie? Siete sicuri? Oppure avete bisogno di lasciarlo decantare, prendere aria, iterarne gli ascolti? Dipende dal disco, risponderebbero i sapienti, con mucho gusto e altrettanta ragione. Che mica sempre gli amori si palesano con colpi di fulmine, e anzi: meglio qualcosa che ha bisogno di tempo per germogliare, innestando radici, sia una donna o qualche solco. Ognuno di noi ha le proprie innumerevoli liste (di dischi, non di donne) ma – sovente – in queste liste i Marxman non vi entrano.

Ed è strano assai visto che, in quel 1993, per un infinitesimale istante sembrarono (e furono) la risposta anglo-irlandese ai Public Enemy. Virata pop celtico. Agguerriti, arrabbiati, pronti a farsi bannare dalla BBC per Sad Affair, brano contenente il motto che ogni britannico ha imparato ad odiare negli anni: “tiocfaidh ár lá“, ovvero null’altro che lo slogan dell’IRA. E invece quei primi anni novanta erano giorni di distensione sonora, di fraseggi e unioni armoniche tra le più disparate. Di proclami guerrafondai affrontati con un certosino gusto pop, la mano tesa e una miriade di produttori. Proprio come questo 33 Revolutions Per Minute (a proposito: c’è mai stato un titolo più bello?), arrivato come una meteora cantata da un angelo (c’è la Sinead su Ship Ahoy, ricordatevelo) e altrettanto velocemente sparito nel cosmo dopo un ulteriore prova (Time Capsule) datata 1996. Altri tempi, e hai voglia poi a dire che lo sciocco guarda il dito anche durante l’eclissi visto che ora persino l’ultimo giannizzero della bachata ha 12 album alle spalle e una miriade di singoli. Liquidi. Solo sette in carriera invece per i Marxman (e nuovamente a proposito: c’è mai stata denominazione sociale più bella? Forse sì, ma pure questa non scherza). Sette singoli, tre dei quali estrapolati da questo esordio pressoché perfetto. E quanto eravamo entusiasti e grati a queste nuove sonorità che si palesavano per l’aere come un matrimonio misto, dove gli Shamen viravano dalla psichedelia all’elettronica senza sembrare opportunisti; dove Gary Clail bruciava immolandosi con uno dei dischi più belli dell’intera storia britannica (Emotional Hooligan); dove gli Orb ridisegnavano l’UFO Club; dove la On-U Sound si apriva al mondo vestendo di nuovo come le brocche del biancospino il ritorno di Little Annie (Short And Sweet. Favoloso per non dire immenso). Quanto fu rivoluzionario quell’impeto danzereccio virato in mille salse, quanti mondi ci diede l’opportunità di conoscere, quanto ci aprì – in definitiva – gli occhi con uno di quei giochini da cruciverba emotivo che, con un unico filo, univa i puntini da God Save The Queen a Firestarter rendendoci consapevoli che – forse – c’era stata più rivolta incontrollata in un qualsiasi white label degli Shamen passato allo Shoom che in tutti i mariachi col pugno alzato e la chitarra belluina dei Rage Against The Machine. Oppure no, ma era comunque bello confondersi.

Cotanto senno invece non attecchì, sembrando soltanto l’ultima moda in fatto di meretrici ritmici, qualcosa da batterci il piedino il venerdì sera con una pinta in mano (non c’erano ancora le aperiminchie tutto chiacchiere e latino-americano). Ma quanto armeggiavo con questi suoni, dentro una camera che pareva un Loft di Mancuso campagnolo e in seconda, provvisto di 12” sparsi per terra, cavi, giradischi spaiati e un mixer di legno (giuro!) che sembrava provenire dagli scontri di Stonewall tanto era vetusto. Aveva solo due canali e mi era costato 70.000 lire, il decennio prima. Lo considero ancora come il decino di Paperone e nulla al mondo mi toglie di dosso quel sapore di tavole fumose, vinile gracchiante, liquido per pulire i solchi e copertine appiccicate dal caldo. Da farci un profumo alla Davidoff solo per noi, vecchi bacucchi del vinile che ancora innalzano barricate a tutte le pubblicità Vodafone con la scosciata di turno. Ridateci Britney, che almeno cantava Toxic.

Ma sto divagando.

Sto divagando quando invece mi piacerebbe riaccendere quella febbrile ansia positiva che ci colpiva su ogni disco pronto a portare più avanti (o di lato, che così non offri mai la schiena al nemico) la nostra idea di rivoluzione. Che accadeva 33 volte al minuto. RPM, giusto. Invece mi sento come uno di quei coglioni alle Termopili, uno inutilmente indaffarato a mettere le dita nei buchi della diga. Un giapponese nascosto nella foresta, 25 anni dopo la fine della guerra. Un coglione, l’ho detto. E così spero di voi, assicurandovi che – alla fine – è un complimento. Perché nessuno ci toglierà mai quel batticuore, quella voglia di scoprire ed informarsi, quella fatica (anche fisica) che si doveva mettere in atto per recuperare e poi comprendere un disco. Pesano i dischi, accidenti. Pesano un botto, non ci stanno sull’iPhone, non hanno un suffisso punto wav, necessitano cure e non li puoi eliminare con control alt canc. Te li tieni, a monito e futura memoria di cosa eri in quel determinato passo della tua esistenza. E anche se siamo di bocca buona, abbiamo scheletri negli armadi (talvolta vere e proprie salme) e siamo affetti da lune nostalgiche e sciocche retromanie quanto avremmo bisogno oggi come oggi di quei tempi, fosse solo per stringerci come legione romana dinanzi a “gli ultimi posti in aereo storie di palme nel cielo foto con l’hashtag io c’ero andale, andale portami giù dove non si tocca dove la vita è loca andiamo a ruota questa notte è nostra faremo come il vento da 0 a 100”.

Farei anche io come il vento, un ghibli rovente che deterge e cauterizza stando attento, ma non mi è concesso perché lo chiamano progresso. Lo so fare anche io il rappettino, stronzetta. Rap prima di te. Posso invece solo fare come il giapponese e fingere di non aver perso la guerra, magari ascoltandomi ancora e ancora – in loop – cotanta meraviglia chiamandovi tutti a raccolta. Da 0 a 100.

Oisin Lunny e Hollis Byrne erano i Lenin e McCarthy dell’hip hop isolano, pronti a salpare sulla scialuppa marxista prima di autoaffondarsi in mare aperto, resistendo alla tentazione del riciclo o del recupero. Non vi saranno altre note, band o progetti da parte della coppia, con il primo pronto a dedicarsi alle colonne sonore (Derailed consta di un suo pezzo) e il secondo sparito in un anonimato coatto. Così si fa, altro che ‘mille e non più mille’. Eppure quanta roba sono riusciti a stivare in quella scialuppa chiamata 33 Revolutions Per Minute, a partire dall’hip hop balcanico e celtico di Theme From Marxman, traccia che apre il disco con impagabile sagacia (Here to break necks and make socialist sex I flex like Marc Bolan from T.Rex) e che passa il testimone a All About Eve, altra meraviglia che unisce in osmosi il campione di High Steppin’ Hip Dressin’ Fella delle Love Unlimited innestandolo su uno Stevie Wonder d’annata (I’d Be A Fool Right Now). Stupeficio da anime candide, che siano Soul II Soul o De La Soul. Non porta una ruga addosso e non ha nemmeno bisogno di chirurgia plastica tanto è perfetta di suo. Father Like Son spinge sulla frizione della protest song in bilico su tempi grami, che siano stati di John Major, della Guerra del Golfo o dell’ex Yugoslavia. Mantra metallico che sa sì da Al Stewart ma posto sotto ipnosi da Chuck D. Mi entusiasmo ancora per questi 10 brani, e come potrei non farlo quando si palesa Ship Ahoy, forse uno dei 5 singoli più importanti degli anni novanta. Quattro minuti di perfezione assoluta dove cozzano balli irlandesi, Van Morrison, i Massive Attack e un bhangra rap. L’impossibile che si fa divino. Hip Hop che diventa ‘altro’ mutando pelle e riflessi mentre i quattro (oltre a Byrne e Lunny sono della partita anche MC Phase e DJ K One) gettano macchie di colore su una tavolozza intonsa proveniente da altri tempi. Sublime come il fiato sul collo di notte in riva al mare, sventolando una bandiera del cuore ad una nave che non arriverà mai. Sarebbe difficile far di meglio dopo cotanto senno e invece Do You Crave Mystique s’innalza alle stesse altezze rarefatte. Proveniente dalla penna di Gladys Shelley, trasmuta la grande tradizione orchestrale americana in un Unfinished Sympathy alla Prince. Prodotto da Barry Manilow, però. Sad Affair alza il livello dello scontro tramite un proclama contro la dominazione inglese in Irlanda. Invettiva durissima, sputata e spietata che i nostri incollano al muro con un retrogusto trip hop così barricadero da rimanerci incollato anche tu. Droppin’ Elocution sarebbe stata bella indossata da Lee Perry o Dr. Alimantado con quelle ritmiche aride e disossate (Revolution is not anarchism not cynicism or an anachronism there’s isms and schims, the cast iron prisms). Un po’ Consolidated un po’ no. Dark Are The Days percuote flauti e vero hip hop tramite l’innesto di Leroy Quintyn (già collaboratore di Chaka Khan) mentre Drifting è un acid jazz che avanza come una pantera di notte, in cerca di copule tra amanti. Curvilineo, sensuale e prodotto – pensa un po’ te! – dai Gang Starr. Chiude Demented ed è un ottimo sigillo di classico hip hop dinoccolato.

Mi sembra meno amaro questo sole acido e incattivito dal suo continuo roteare dopo l’ascolto ripetuto dei Marxman e – sebbene sia passato un quarto di secolo – non ho perso la speranza di un mondo ‘altro’ e non allineato. Un mondo con pochi scarti sociali e ancor meno umani. Magari non serviranno 33 rivoluzioni per cambiarlo, ‘che una ben assestata basta e avanza. Fatelo vostro se amate celarvi all’urlo belluino della folla, se vi piace sezionare le parole col coltello invece di gettarle alle ortiche o solo agli sciocchi, 33 Revolutions Per Minute rimane ancor oggi una risposta forte e decisa; una risposta sociale, emotiva, marxista. E geografica dacché continua a dimostrare che anche Dublino poteva essere Bristol.

Dica trentatrè.

Michele Benetello


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