Superstar – 18 Carat (Camp Fabulous, 1994)
Scozia, sempre un bel posto se vuoi fare pop chitarristico condito da malinconie assortite e arrangiamenti vaporosi, figuriamoci in quella sbornia d’inizio novanta. No? Joe McAlinden in quegli anni è già una mezza personalità a Glasgow avendo fatto parte dei Groovy Little Numbers, dei Boy Hairdressers e – soprattutto – dei BMX Bandits; apprezzato e stimato musicista chiamato pure a corte dei Teenage Fanclub in guisa di arrangiatore essendone amico dai tempi della scuola. Non un pezzo grosso della tumultuosa scena autoctona ma certosino amanuense capace solo (solo???) di sfornare canzoni e arpeggi chitarristici, multistrumentista che preferisce corde e tasti alle parole per espiare peccati o raccontare storie. Ne racconta talmente tante che persino la Creation si scomoda – nel 1992 – per annettersi i Superstar, la nuova creatura del nostro, pronto a chiamare in causa nel progetto Mark Hughes (proveniente anch’esso dai Groovy Little Numbers), Neil Grant e Raymond Prior. Tre carneadi (il terzo finirà nei Telstar Ponies) lesti a dar manforte. Greatest Hits Vol.1 si chiama l’esordio dato alle stampe dalla prestigiosa etichetta. Il titolo confonde e la miscela pure; 6 brani che non quagliano molto e anzi abbandonano subito le forti braccia di Alan McGee per accasarsi altrove in una transumanza che non ha ancora trovato la quadratura del cerchio e dello spartito. Non fa molto meglio Superstar (1994) che – sebbene su minuscola SBK Records – ha la corazzata Capitol alle spalle. Pare già finita e non lo è, come mille altre storie con le quali si è lastricata la storia del pop. Ma qui vi è un motivo preciso e fisiologico: troppo umbratili le composizioni dell’uggioso scozzese, sempre a latere rispetto al ‘glamore’ Suede o alla fenomenologia brit pop che comincia a sgomitare nelle classifiche. Cinque anni di carriera e nessun vero riscontro nonostante l’appoggio di due etichette tra le più quotate del pianeta, roba da distruggere i sogni di gloria di qualsiasi musicista. Non di McAlinden, che – dopo uno stop di 24 mesi – rimpolpa la formazione con Jim McCulloch (proveniente dai Soup Dragons), Quentin McAfee e Alan Hutchinson. Quest’ultimo già collaboratore di Alex Chilton. Girandola di nomi che potrebbe sembrare a vuoto, inutile tentativo di pescare nel mucchio, ma si rivela scelta vincente, fosse solo per levigare e rendere preziose le composizioni del nostro. Il risultato? 18 Carat.
Facciamo un salto indietro. O a latere. 1997. Forse in assoluto l’anno in cui ho comprato più dischi in vita, emigrante delle sette note pronto ad affrontare dispendiosi nonché faticosi avanti e indrè verso il Vallo di Adriano. Anno cruciale quello, da qualsiasi parte lo si voglia prendere e non solo per la morte di Billy MacKenzie (gennaio, ero giustappunto in quel di Londra) o di William Burroughs (agosto, ero giustappunto boccheggiante) ovvero due cardini della mia esistenza, ma anche per tutta una serie di vicissitudini personali comunque noiose e di nulla importanza in queste righe. Come che sia quello era l’anno di Mr. Cd, vetrinetta minuscola in quel di Soho dove – con cadenza quasi oraria – arrivavano casse di promo ad un prezzo irrisorio, un buon termometro per farsi un’idea di cosa stesse succedendo all’interno dell’industria musicale britannica o anche solo per passare pomeriggi in una sorta di trance agonistica. Centinaia di uscite, di nomi assurdi, di progetti, di cd single buttati dentro ad uno striminzito cartone e affidati alla corrente, quasi fossero messaggi in bottiglia. Fatica e dovere che assolvevo due volte al giorno, tra un salto a Cheapo Cheapo e il pellegrinaggio ai vari Record And Tape Exchange (Selecta no, Selecta era servita solo per prendere un determinato ellepi, do you know what I mean?). È lì che mi imbatto nei Superstar, in un imprecisato momento di un pomeriggio pieno di sole e di entusiasmo.
Folla sgomitante, una serata a Chalk Farm in arrivo e l’aria autunnale e romantica dell’omonimo singolo che si spende e spande lungo tutto il negozio, immobilizzandone le gesta. Magari non di tutti – parecchio materiale umano era affaccendato a squirtare gridolini su Bjork – ma le mie sì. Qualcosa che colpisce lungo l’aorta, qualcosa che ha la dimestichezza e il perimetro dell’amore quando si rivela e che ti costringe a chiedere lumi al solito commesso scorbutico. L’emaciato capelluto mostra una anonima copertina ornata da un altrettanto anonima scritta recante la dicitura Superstar. Quindi? Quindi niente, l’odiosa mezzala di ‘stocazzo lo ributta nella pila senza dire una sola parola, palesemente scocciato. Non sai se è il titolo, la band o chissà cos’altro. Non lo sai ma ti fidi e torni alle pile e alle scaffalature, certo di trovare il Sacro Graal o – almeno – quel singolo. Nel frattempo (cosa rarissima per una canzone udita in mezzo ad un pubblico infoiato) una lacrima furtiva circumnaviga il tuo corpo cercando una via d’uscita. Quelle chitarre, quel giro chiesastico di tastiere, quella batteria funerea e quella voce imprecisata, sepolta da un missaggio eccentrico e da un riverbero che solo gli abbandoni ti fanno udire, beh… Quella canzone ha ampiamente fatto breccia, trovando il pertugio per l’evaporazione della lacrima di cui sopra. Deglutire è sempre una buona via di fuga quando sei sbattuto al muro.
Guardo gli amici, protesi verso altezze delle quali andar fiero, pronti a setacciare singoli dei Bis, dei Super Furry Animals, dei Death In Vegas, dei Black Grape, dei Prolapse, dei Silver Sun, dei… Oh, che importa quando improvvisamente scorgi la costina ad alzo zero? È lì, tra un Elcka, un Jocasta e un Subcircus. Faccio poker annettendomeli tutti, certo di assolvere al mio dovere. In cassa l’emaciato lungocrinito regala una smorfia snob e – mentre al sole frizzante dell’imbrunire – accendo una sigaretta in attesa dei ragazzi, penso che mi verrebbe voglia di schiaffeggiarlo con la lacrima di poc’anzi, quel coglione. Chi ha il pane non ha i denti, piccolo e arido britannico che passi le giornate a impilare dischi dei quali probabilmente ignori l’afflato emotivo. Hai tanta roba che ti passa tra le mani, ma vorrei sapere quanta ti si sofferma sul cuore, con quella faccia da Slipknot che ti ritrovi. È solo quando ritorno a casa che dimentico la spocchia e il volto di quel Paperoga saccente, ma non posso ricacciare indietro la lacrima britannica mentre Superstar prende vita nel lettore e vi scopro pure un Robin Guthrie Melody FM Mix reso secco come l’aria del deserto mentre sogni il vapore acqueo.
Scoprirò molto altro, con il tempo: scoprirò che quel singolo si è inerpicato con fatica fino al numero 49 delle classifiche inglesi prima di scomparire in un anonimato crudele, scoprirò che persino Rod Stewart ne è stato colpito a tal punto da magari non farci una lacrima ma una cover sì (inserita in When We Were The New Boys, del 1998). Scoprirò una discografia parca ma di difficile reperibilità. Servirà un altro viaggio e l’arrivo di Amazon e Discogs per completare lei e chiudere per due lustri i miei approcci con l’Albione.
Però una cosa voglio dirla, e quella cosa si chiama 18 Carat. Un disco che consta di soli sette brani ma che risplende esattamente come tutti i carati chiamati in causa. E se del singolo s’è detto, arrotondandolo per estremo difetto dacchè meraviglia umbratile e sorniona che ti annienta come un Al Stewart arruolato nei Cocteau Twins o un Mick Ronson in osmosi con i Josef K. Onde di chitarre e di Breathless caduti di faccia sulla Sarah Records, sei corde ruggini iniettate di kryptonite ed effetti, echi di armonie lontane e una voce che spazza l’orizzonte, proveniente da sottocoperta, tra legni, carne essiccata e funi, mentre navighi in mare aperto. Che meraviglia figlioli, e come si vede nettamente terra, da qui. Quanto vorrei rivivere l’esatto istante in cui si rivelò dentro quello sgabuzzino in giorni che ancora si potevano appellare sereni e privi di paturnie. Lo sto riascoltando giusto ora, quasi in loop, richiamando a raccolta quella lacrima datata 1997 e soffermandomi sulla cristallina produzione di Dave Anderson, uomo già seduto in regia di Orange Juice, Al Green, Fine Young Cannibals, Ocean Colour Scene, David Gray e Sundays. Le armonie alla Brian Wilson che surfano sulle fredde baie di The OK Corral e il muro del suono chitarristico che come un onda giunge a riva in Why Oh Why, eretta con i Geneva immaginati sullo sfondo. It Feels So Good To Be With You ha qualcosa da insegnare a Dog Man Star e This Is Hardcore mentre Bumnote chiama a raccolta tutta la scena scozzese, che si veste a festa per rendere omaggio con chitarre, Big Star e pane azzimo. E poi Bad Hair Day a lambire di un soffio la perfezione del singolo, un Neil Young che si fa Bacharach indie prima di condurci alla fine, ovvero Little Picture. Nostalgica elegia edificata in punta di pianoforte con il naso rivolto verso una West Coast immaginata sui mari del nord, magari tra un Elvis Costello e un Elton John pre alopecia.
Che altro ti serve quando settembre si avvicina?
Ci saranno altre cose in casa McAlinden prima di chiudere l’avventura delle Stelle, alcune interessanti (Palm Tree, dove si puote nuovamente trovare la meraviglia Superstar), altre meno (Phat Dat). Da qualche anno il nostro si diletta con i Linden, banda senza infamia né lode patrocinata da un altro scozzese famoso: Edwyn Collins. Quella lacrima, nonostante tutti i richiami possibili, non si è più palesata. Ma non dispero.
Michele Benetello