Terry, Blair & Anouchka – Ultra Modern Nursery Rhymes (Chrysalis, 1990)
Non so cosa imponga la deontologia professionale riguardo i dischi da trattare; ho sempre pensato che per parlare di qualcosa con cognizione di causa bisognasse possederne fisicamente le fattezze. Area e perimetro. Forma e sostanza. Altrimenti si finisce a ciarlare come i tuttologi che infestano la rete e che con estrema disinvoltura passano la vita a far gli Zelig: un giorno cardiochirurghi, il giorno dopo economisti da Nobel e quello appresso skipper all’America’s Cup. Dovrei chiedere a quelli veramente bravi (e ce ne sono) come comportarmi in tal senso, ma non so se mi risponderebbero. Quindi mi trovo un po’ in impasse, visto che questo disco me lo sono lasciato sfuggire come uno stolto ad una Fiera di qualche tempo fa a causa della mia solita incapacità (e accidia) nel portare pesi. Ma nessuno ha addosso una croce più grande di quella che riesce a trascinare, giusto? Quindi evito di rivolgere le mie mire a Discogs (per ora), parlandone tramite una volgarissima versione in mp3 gentilmente offertami dalla rete quando – a suo tempo, mentre mi morsicavo le nocche – decisi di sapere cosa mi ero perso.
La verità è che non volevo tralasciare Terry Hall, semplicemente. Uno che considero un amico e che possiede la faccia probabilmente più simpatica dell’intero scibile pop. Il mio Pluto che sapeva scrivere canzoni. Mi bastava guardarlo ciondolare con un’espressione tra lo svagato e l’incredulo per farmi assalire dal buonumore. E a me – la faccia da animaletto sbilenco di Terry Hall – ha sempre messo addosso una serenità con pochi eguali. Quindi mi permetto un’eccezione (una soltanto) giurandovi che – prima o poi, magari alla prossima bancarella e/o mercatino – il manufatto in vinile giacerà meco. Terry Hall dunque, il bianco col sangue più nero d’Inghilterra, forse uno dei 3 o 4 talentuosi canzonettari (sia preso nella miglior accezione possibile del termine) sfornati dal pop britannico nella prima metà degli anni ottanta. Una faccia da ultimo banco, il finto tonto con lampi di genio, lo stralunato più in gamba durante la gita scolastica. Uomo erratico e musicalmente insofferente, ma pure uomo che ha posato la sua ugola sugli Specials, una delle pochissime e reali glorie d’Inghilterra.
Di quella multirazziale confraternita saprete già tutto, saprete di Ghost Town e della sua importanza politica; saprete della 2Tone, etichetta fortemente voluta dalla band ed in particolare dal loro leader Jerry Dammers; saprete di come quella congrega rappresentò una reale via di fuga per un’intera generazione, stritolata da pressanti problemi; saprete anche come finì quella meravigliosa storia, in un maelstrom di incertezze, dissapori e diaspore. Fu proprio Ghost Town (c’è un discreta rilettura dei Prodigy in giro) a rappresentare il ‘qui ed ora’ di una nazione sull’orlo del baratro, la diga sonora che impedì a violenti scontri di sfociare in guerra civile. Fu eletta miglior singolo del 1981 ed inserita tra le 100 canzoni di tutti i tempi, a dimostrazione di come – davvero – gli Specials avessero parlato ad una intera nazione, non solo alla Thatcher o al National Front. E se oggi una cittadina di poco conto come Coventry è sulle mappe rock di ogni adepto, beh… il merito va assolutamente ascritto a loro. E ai Bolt Thrower, certo. Sia mai.
Terry Hall era un giovanissimo ragazzotto sbilenco, emaciato e bianco in mezzo ad un agglomerato di senno caffelatte, un vaso di argilla stritolato da vasi di ferro; ma era anche il viso da esporre all’Inghilterra – con quei suoi capelli a nido d’uccello e quella faccia da cocker spaniel triste – durante gli epocali giorni di Ghost Town. Contribuì anche lui a mettere il sigillo su quelle meravigliose e importanti pagine di reggae rock inglese, così gioiosamente ludiche nel loro innalzare tromboni, fiati, tastiere, bassi tellurici (inutile citare A Message To You, Rudy) e una penna tagliente quanto dolceamara. Profondamente innamorato delle melodie anni 60 e del pop meno dozzinale, al deflagrare della Speciale avventura cercò subito una propria via fondando i Fun Boy Three assieme agli ex sodali Lynval Golding e Neville Staples, facendosi accompagnare da tre ragazzette allora sconosciute ma destinate a gloria planetaria: le Bananarama. Scrissero pagine di zuccherosa – ma intelligente – pop music (quasi come dei B52’s sotto Valium). Canzoncine appena munte, con la stessa andatura dell’Orso Yoghi, bighellonanti in un fiume caffelatte dove piovono biscotti e gli occhi hanno sorridenti cispe. Per due anni fu mistero gaudioso e gioia purissima poter fischiettare i rapaci ritornelli o le estrose strofe di quei singoli contagiosi, fossero The More I See (The Less I Believe), The Tunnell Of Love, Our Lips Are Sealed o Really Say Something. Due anni, prendere o lasciare. Due intensi anni prima che quel suffisso ‘fun’ diventasse troppo stretto e un divincolarsi di scazzi e diverse esigenze armoniche mettesse il sigillo all’avventura. Fun Boy One si ritrovò ai blocchi di partenza. Ecco allora i Colourfield (assieme ai Toby Lyons e Karl Shale) e poi i Vegas (in combutta con Dave Stewart degli Eurythmics). E… ci credereste? Tutta roba che durò il tempo di uno sputo in strada. Però – ed è qui che finalmente pianto le tende – è proprio lì in mezzo (anzi: esattamente dopo i Colourfield) che si incastonò una pietruzza inesplorata, uno dei soliti passatempi del nostro, di quelli che era solito abbandonare con un’alzata di spalle, negandosi una visibilità che avrebbe fatto comodo. A lui e a noi. Un solo album, due singoli a trainarlo e ciao. Classico, per uno come Hall, e quasi ti vengono i nervi nel ponderare siffatta accidia.
Insuccesso bello e buono Ultra Modern Nursery Rhyme, dalla scarsa visibilità e ancora più deficitaria distribuzione. Un faticosissimo ottantesimo posto nella classifiche inglesi prima che – Terry Hall, Blair Booth e Anouchka Grose – facessero perdere le loro tracce. Come entità unica quantomeno, dacché la graziosa Blair Booth a sprazzi andrà ad alzare la testa accompagnando Billy Mackenzie, Rachid Taha, Marc Almond e fondando i misconosciuti Oui 3 e la Grose è una giornalista/scrittrice di origini australiane nonché una delle maggiori psicanaliste Lacaniane del pianeta. Che ci facevano due donzelle simili assieme al nostro svagato preferito? Un album, chiaro. Qualcosa che penzolava dalle parti di un caramello sixties pittoresco e spectoresco, pieno di marshmallow sonori, fiati, arrangiamenti zuccherini, canzoncine alla Petula Clark o alla Tracey Ullman. Ma sempre con quell’accidia e l’incedere sornione che è tratto distintivo del nostro. Lo mixa Bob Sargeant, uomo aduso a dirigere cursori con Fall, Beat, XTC, Damned, Motorhead, Tricky solo per nominarne alcuni. Un disco che passò sotto silenzio e che – ripeto – mi ritrovai tra i polpastrelli un’unica stramaledetta volta, ad un prezzo irrisorio. Scelsi di lasciarlo orfano in mezzo a paccottiglia suprema, con un accidia pari a quella del nostro quando si trova davanti un microfono. Colui che fece per viltade il gran rifiuto. Io.
Aveva un metodo nella sua idiosincratica follia, il Terry. Laddove i Fun Boy Three vagheggiavano dei Talking Heads in gita scolastica a Topolinia (Byrne ci mise davvero le mani, producendo l’album Waiting) e i Colourfield rappresentavano prove tecniche di sognante vintage pop, questo parto estemporaneo andava a racchiudere le intuizioni del passato portandole ‘oltre’. Un viaggio diretto alla medesima meta (l’unica che il nostro abbia mai avuto) effettuato con una macchina dalla carrozzeria luccicante seppur priva di sprint nel motore. E se vi pare un puntiglioso appunto (non lo è) dovreste approcciarvi dall’inizio; nello specifico con la traccia che dona il titolo all’album, raggruppandone tutta la letteratura in quattro parole dove appaiono visioni di pastelli a cera, coretti sognanti, Swing Out Sister, un Paul Weller finalmente con il sorriso, sussidiari retrò da colorare e un gusto soul che si declina all’imbrunire. Sophisti-pop si era soliti chiamarlo, sei o sette lustri orsono. Dalla perfetta manicure, mi verrebbe da aggiungere; come si evince anche da Missing, una immaginifica e chiesastica notte di Natale abbracciati a Lily Allen, pezzo per il quale il Rob(b)iolone Williams potrebbe uccidere. O quantomeno farsi un nuovo tatuaggio. Bacharach e Costello si infiltrano in ogni pertugio, e pure Ian Broudie avrebbe due accordi da aggiungere al tema. Il pop inglese che si fischietta con un caffè bollente in mano e una sciarpa troppo lunga mentre si scendono di corsa gli scalini della metropolitana sotto una pioggia battente, sbirciando le patatine all’aceto che occhieggiano dal negozietto indiano. Canzoncine fatate e iper prodotte che s’ergono anche in Fishbones And Scaredy Cats, ovvero quasi una permutazione di Sono Tremendo di Rocky Roberts col piede premuto sul freno e un’avanzare da ipercinetici Young Marble Giants. Vocine da sottofondi per commediole con Hugh Grant, Pet Shop Boys bacchettati sulle manine, Saint Etienne lasciati seccare al sole, pleniluni autunnali avvolti da una nebbiolina al bergamotto.
Viene voglia di lasciarlo spandersi per la casa, Ultra Modern Nursery Rhymes, magari mentre si è in altre faccende affaccendati, cosicché possa venire assimilato subliminalmente dalle sinapsi. E in questo un pezzo come Lucky In Luv è perfetto: jazz swing da Aristogatti, cambi armonici improvvisi e movenze da Grease. Tutti assieme, appassionatamente. Day Like Today avanza come un Barry Adamson steso in spiaggia a Formentera in compagnia degli Swans Way (per chi ancora li ricorda). Delicate impronte di jazz col cappuccino dalla schiuma fumante. Latte intero, chiaro. Ma riesce a far di meglio Sweet September Sacrifice che ha da subito la statura del classico oltre ad un ritornello da lungometraggio con Meryl Streep sotto una umbratile New York, magari proprio Falling In Love, quel film del 1984 diretto da Ulu Grosbard. Se siete incolonnati in auto sotto una pioggia epocale vi rallenterà il tempo d’attesa. Paaa paa pa pa paaaa, e mi par di vedervi battere i palmi delle mani a tempo sul volante, assieme a me. Magari su Tree Cool Catz (rieccoli, gli Aristogatti), crasi tra un Matt Bianco intelligente e un Kid Creole triste. Porta in calce la firma Leiber & Stoller, proviene dal repertorio dei Coasters (lato b del 45 giri Charlie Brown) e ci schiocchereste sopra le dita se non fossero impegnate ad asciugarvi le lacrime. Rum e cola, un club fumoso all’ora di chiusura, immagini di Zorro in TV, spanish flamenco e Mink DeVille che ride seduto sopra dei bonghi troppo piccoli. Finisce riecheggiando Ain’t Necessarily So e io ci riesco ad immaginare pure Elvis che la canticchia sorridente mentre si pulisce gli anelli col Sidol.
Viaggio che pare non finire mai, quello di Ultra Modern Nursery Rhymes, e che vien voglia di iterare in loop in questi giorni di sbalzi termici. Happy Families è una serata a Top Of The Pops nel 1966, con Sandie Shaw senza scarpe, tubi catodici in grigio e nero, i Weekend nel cuore e Lisa Stansfield, le Wilson Phillips e i Blow Monkeys seduti tra il pubblico a prendere scrupolosa nota. Canzonetta al sidro senza pretese dove Johnny Marr sarebbe stato il valore aggiunto. Terry, It Was Really Nothing, ostia. Non avresti potuto fargli inserire i polpastrelli anche in Beautiful People, rendendola hit da biscotti danesi al burro e tè alle cinque? Just Go è il vaudeville finale, la passerella col cappello in mano e un sorriso triste. “E tutto ad un tratto il coro!” come avrebbe recitato quel vetusto Carosello con Carlo Dapporto. Un banjo strimpella stridente nascosto dal missaggio mentre Laurence dei Denim si batte i pugni sulle tempie per l’invidia. Più Terry Hall di così non si puote. Difatti non si potè.
Non so cos’altro spremervi appresso per invogliarvi all’ascolto, ma se – dopo un giro su questi 10 brani – ancora non vi foste convertiti al verbo allora significa che avete la discografia dei Cardigans al posto del cuore. Epperò una cosa una vorrei aggiungerla ancora, spingendola dentro a forza: dovesse avanzarvi quella manciata di dobloni fuori corso vi esorterei ad inserirli nella fessura del 12” di Ultra Modern Nursery Rhymes, fosse solo per la rilettura di Love Will Keep Us Together, proveniente dal catalogo di Captain & Tennille e qui resa alla stregua di paperelle con la marimba. Gemma da un musical immaginario.
Oh, insomma… ‘fanculo, perché attendere? Apro una nuova scheda del browser e riempio il carrello con il vinile prima che quest’ammasso di pixel finisca, lasciandomi con uno strano retrogusto in bocca e nessuna copertina da poter avidamente palpeggiare. Questo disco è fatto della stessa materia di cui sono fatti gli studi di registrazione, guarnito da 10 brani tutti uguali eppure tutti radicalmente diversi. Ma come non farsi irretire da cotanta scrittura apparentemente semplice seppure zavorrata (e forse è questo l’unico contro di un disco pieno di pro: l’eccessiva e maniacale cura per gli arrangiamenti) di suoni, colori e impasti vocali? Ultra Modern Nursery Rhymes è probabilmente il manufatto più nascosto di una carriera mai meno che deliziosa nonché trentennale, un disco dove il kitsch fa capolino in più di un passo e cascate di lustrini di jazz patinato adornano muri che sudano cocktail. Perfetto per ricondurci alla prossima primavera con una esatta e bilanciata dose di spleen e solarità.
Non so se lo leggerai mai, ma questo è A Message To You, Terry. Perché un Hall non si abbandona mai, checché ne dica Oates.
Michele Benetello