Ultrasound – Everything Picture (Nude, 1999)
Avete anche voi i dischi ‘importanti’ che trascendono il mero valore qualitativo, vero? Quelli che poco hanno a che vedere con la ragione ma molto con il cuore e qualche volta con il suo surrogato pulsante? Quelli che vi siete spesso trovati davanti – sbattendoci addosso, senza sapere il perchè – in molti snodi della vostra vita? Certo che li avete, ci mancherebbe. Ne sono sicuro. Sovente non volete parlarne, perchè è troppo doloroso, per pudore o anche soltanto per vergogna… Mica decidi tu che musica discinta ti viene incontro quando hai cazzi e mazzi. Magari. Ma non sempre ti capitano tutte le fortune. Parlo di quei dischi magari non all’apice delle vostre preferenze eppure simpatici come le compagne di classe alle medie, le uniche disposte a legare con voi – cedendo per questo posizioni su posizioni nel roster scolastico – a causa di affinità elettive che esulavano dal mero scompiglio del corpo. Ecco, avete capito: quelli. Vero che li avete?
Non parlo di ‘in una relazione complicata’ anche se – in genere – è sempre lì che si va a parare, guardando le home page. Lì o nelle dinamiche familiari. È che gli Ultrasound sono venti lunghissimi anni che mi cozzano contro ad ogni giravolta della vita; non ne conosco gli imperscrutabili motivi ma ogniqualvolta la mia esistenza ha uno scarto, un’impennata, un salto nel buio o una derapata… Bamm, loro si ripresentano. Un po’ come i Dire Straits, che mi ammorbano le gonadi da sei lustri e non riesco a togliermi di torno. Una tragedia, questi ultimi. Che poi… Non che io sia tenacemente fanatico e, a dirla tutta tutta, saranno tre le canzoni che davvero mi piacciono. Degli Ultrasound dico, non di Knopfler e soci. Quattro, via. Forse cinque, sono sincero. Magari sei, ecco. Diciamo sette e non se ne parli più. Che faccio, lascio?
Ho sempre avuto difficoltà a comprendere l’esaltazione e le lodi sperticate che per un nanosecondo li avvolsero, abbracciandoli, nel 1998 o giù di lì. Troppo progressive, troppo barocchi, troppo pomposi, lenti, melliflui. Poco, pochissimo anni novanta, alla fine. Decennio di sbornie e euforia psicotropa senza fine nel quale loro recitavano la parte dei beghini altezzosi e snob. Però c’era qualcosa. C’era che la scrittura non aveva equivalenti nell’Inghilterra del tempo; c’era che Andrew Wood mi era simpatico con quell’aria da anti rockstar sovrappeso. Sembrava Oliver Hardy in La Ragazza di Boemia. O Meat Loaf dopo un restyling da Antena. Lui, afflitto da pinguedine coatta e decisamente lontano dai canoni delle faccine che amministravano il Brit Pop con sapiente tecnica computistica. Movimento dal quale ne erano ampiamente fuori, avendo esordito nel 1997 e quindi non facendo parte di quella combustione durata suppergiù 18 mesi. Erano lì, in una terra apolide, in mezzo a fricchettonaggini anni settanta, implumi canzoncine retrò, mirabolanti suite orgiastiche, lunghe e spossanti cattedrali di pop sinfonico. Dei Cardiacs in fissa con i Genesis, se proprio volessimo usare iperboli (Selling England By The UltraPound), per quanto la banda di Tim Smith sia sempre stata un punto di riferimento imprescindibile tanto da convincere Wood a riformare il gruppo nel 2010 per un concerto in favore dello sfortunato leader dei Cardiacs che – nomen omen – aveva avuto un infarto.
Insomma, ‘sto cazzo di Ultrasound: cinque che se non ci fossero stati li avrebbe immaginati Walt Disney tra un trip e l’altro di Fantasia. Five Get Over Excited, provate a visualizzarli: uno spilungone emaciato alla chitarra (Richard Green) in odor di anoressia e con uno sguardo da Scooby Doo; un barbuto nerd alle tastiere (Matt Jones) prossimo al bikerismo; un batterista mollaccione (Andy Peace) con l’aria da roadie dei Coldplay e una biondina isterica (Vanessa Best) da aperitivo in centro. Basso e cori, quest’ultima. Fan quattro, dite? Mi sono tenuto l’asso alla fine: Andrew ‘Tiny’ Wood, cantante dalla mole particolare, un Sylvester bianco, un Antony agghindato da paggetto vittoriano. Stazza da sumo e ugola da seconda fila in chiesa. Cazzo di banda era, quella? Il mondo voleva glamore alla Placebo (lo stava avendo, accidenti) e questo crogiolo di disagio stilistico usciva con un doppio cd farcito di canzoni lunghe quanto una coda in autostrada (l’ultima dura 39 minuti). Tutti sbracciavano in prossimità dei fasti di Carnaby Street, loro si rifacevano a Tarkus. Ostia.
After-rock tentarono di chiamarlo, qualcosa che non aveva la lamentosa consistenza dei Radiohead (pure se qui Nigel Goodrich produce un paio di tracce) o la luccicante eltonjohnatura dei Muse; stava ad un livello più basso, fatto di lunghi intermezzi e portentose armonie, ritornelli veraci e svisate infinite. Prog, sì. O qualcosa di simile. Ma un prog riveduto e corretto dall’isteria brit, incidentalmente forgiato da canzoni che molto dovevano all’Inghilterra tutta, sia stata quella di Bolan, di Cat Stevens o – appunto – dei Cardiacs. Gente strana, gli Ultrasound. Gente che si permetteva di lasciar fuori dall’esordio il monolite più conturbante di carriera, ovvero quella I’ll Show You Mine che è una delle mie tre o quattro canzoni degli anni novanta e non saprei spiegarvi il perchè. Pochi minuti che hanno l’incedere di un’amplesso, preliminari e climax compreso, e che regalarei ad ogni esponente meritevole e provvisto di tette affinchè comprenda che con una manciata di accordi si possono fare tante cose. Anzi, parecchie.
I’ll show you mine if you show me yours
All that we have is each other
Everything Picture è un disco che mi porto appresso senza apparente ragione, chewing gum sonoro attaccato all’orlo dei pantaloni. Non mi appartiene ma mi orbita attorno, sovente mi infastidisce e spesso rammenta di maledirmi per non aver mai avuto la possibilità di vedere gli Ultrasound su un palco. E’ lontano dai miei istinti e pure dalle mie consapevolezze, è un calabrone armonico che per la sua struttura non dovrebbe volare e piacermi e invece riesce in entrambe le cose. Un paradosso che non finisce di condurre stupore, soprattutto perchè mi porta a spasso dalle parti del prog, che per me ha la stessa valenza della kryptonite per Superman. Mi irretisce, riesce a calamitare le mie attenzioni ed è nauseantemente affine al sottoscritto. E questo non mi piace. E’ ingombrante, barocco, spossatamente prolisso, è come avrebbero potuto suonare i Magazine orfani di John McGeoch ma con Jonny Greenwood in formazione. Ed è proprio la chitarra di Richard Green la peculiarità di una banda a latere rispetto all’intero panorama coevo. Ha l’odore di certi Smashing Pumpkins innestati sui Van Der Graaf Generator con origami di tastiere, ikebana di chitarre, haiku vocali. Un teatro Kabuki dell’Inghilterra tutta, seduta a guardare il brit pop che si allontana dalla riva.
Cross My Heart dura sette minuti, Happy Times (Are Coming) otto e mezzo, Suckle giusto quei trenta secondi in meno della precedente, My Impossible Dream è ancora un Moloch da quasi cinquecento secondi, Stay Young si arrampica per metà dell’ossimoro di warholiana fama (e difatti fu eletto singolo della settimana per NME), la title track da sola sfiora il primo tempo di una partita di calcio. Same Band, che ha ‘solo’ quattro minuti e nove secondi d’incedere fa la figura della loro Blitzkrieg Bop. Everything Picture At An Exhibition, verrebbe da dire. O Punk Floyd come qualcuno in Albione scrisse. Insomma, sgombrate il campo dalle tutine Blur o Oasis e dalle giacche (su pelo diafano) del Jarvis. Non c’era un cazzo di isterismo modaiolo negli Ultrasound, e anzi cosa aspettarsi da un gruppo che nella prima incarnazione sceglieva l’irritante moniker Pop-A-Cat-A-Petal (dal nome di un vulcano messicano) esordendo nel 1994 con un nastro su Org?
Il colpaccio lo mette a segno Fierce Panda invece, il miglior talent scout in guisa di etichetta del biennio, lesta ad annettersi qualsivoglia nome interessante di quei 24 mesi cruciali. Il risultato è un gioiellino barocco chiamato Same Band. Luccica su 45 giri portando in dono l’abbraccio della Nude Records, il monumentale primo album e un’esposizione mediatica centripeta. L’ambizione e l’ego son grandi, il minutaggio di Everything Picture ancor di più: due cd, 11 brani, 102 minuti di musica. Sette dei quali occupati dall’iniziale Cross My Heart. Ha già in vitro gli accordi che renderanno umbratile il peccaminoso pop di I’ll Show You Mine, li immerge in acquaragia Cluster, vira dalle parti dei Porcupine Tree meno lisergici e sferraglia in un guado tra i Telescopes e il kraut rock prima di sfumare per osmosi dentro Tommy degli Who e – appunto – a Same Band, primo grande (ma grande davvero) pezzo di carriera. Un ipnotico loop di tastiera vintage a pulsare e orde Mordor di strumenti ad avvilupparglisi appresso, Sturm Und Drang Emerson Lake & Palmer che giocano ad un emaciato post punk con i Magazine di Secondhand Daylight. Popgressive da Geneva e Flaming Lips al botulino. Il Fat-tastico Tiny declama come se avesse il cuore addolorato dall’ascolto di Scott4, ciondolando parole col moccio al naso (I’d kiss you if you weren’t a girl), la canzone si incide a fuoco sulle pareti di un 1998 – altrimenti – nebuloso assai. Basterebbe questo per giustificare l’approccio all’album ed è altresì un crimine contro la discografia la decisione della Nude di non iterarne l’uscita su singolo. Stay Young prosegue nel candore e nella magniloquenza, ha le stimmate dei Genesis di mezzo (citofonare casa Rutherford e Hackett) ma è capace di svicolare in un decadente inno alla Roger Waters (hey kids, rock and roll is here so scream all you want it’s a naked pagan glory celebrate the new… Gary Glitter’s gone to seed so who will lead us now?). Glory Glory Ultrasound. E ancora l’arrampicata ai rarefatti Ottomila di Suckle, tra bordate tastieristiche e sei corde kamut che si librano su avventurose scale; Vanessa contrappunta i cori con rara indulgenza sexy, l’assolo di chitarra è qualcosa da sparare nel cosmo con una psicocromia alla Ride, i cambi armonici sono epici. Suckle è polvere di stelle pop sepolta sotto lapilli di cenere pirica purissima. ‘Babies’… in verità, in verità vi dico che la cleptomania baustellica potrebbe trovare nuova linfa in questi accordi sconosciuti ai più. Si torna sulla terra con Fame Thing, rock and roll glitteroso alla David Essex. Happy Times (Are Coming) chiude il primo cd e non è difficile fantasticarvi poltiglia Ok Computer resa bolo da una produzione che già profuma di Kid A. Gli Yes intenti a rifare Ricochet Days dei Modern English non sarebbero caduti lontano.
Potrebbe finire qui, tanto Everything Picture (assieme a Ladies And Gentlemen We Are Floating In Space, del quale rappresenta la versione prog) ha rappresentato il paletto di frassino nel cuore di un agonizzante brit pop. Ne è il contraltare impegnativo e tutt’altro che immediato, lo scarto armonico pronto a rendere visibile ciò che per sua natura è irrimediabilmente demodè. Invece vi aspetta un secondo cd di meraviglie, dove l’iniziale Aire & Calder ha un profumo da Wall Of Voodoo indie immaginatisi nel 1975 ed è bissata dal Neil Young che si fa Pulp di We Love Life (ma anche This Is Hardcore, anzi: Lardcore) di Sentimental Song. Troppo prolissi, dite? Troppa ambiguità di fondo, mancanza di riferimenti, obiettivi e focalizzazione? Eppure è proprio questo il tratto saliente dell’impegnativo lavoro. Che sia voluto o istintivo è questione di lana caprina e ognuno ha probabilmente la propria verità riguardo un canzoniere sempre in bilico, oscillante tra istinto e ragione, con la seconda a prendere spesso il sopravvento tramite un delirio d’onnipotenza sonoro mai domo. E’ ambizioso Everything Picture, egotico, sovente ridondante. Eppure la qualità delle canzoni è innegabile, fatte non furono per vivere in classifica (sebbene l’album recuperi un dignitoso numero 23 in quella inglese) ma per seguir virtute e canoscenza. Floodlit World (altro 45 giri, singolo della settimana per il Melody Maker) in questo senso è inequivocabile: ha uno dei mille Bowie nelle corde e la statura di hit minore, di quelli diesel e con il passo da montagna. Jason Pierce e Le Orme avrebbero gradito. Costa fatica cotanto senno e difatti My Impossible Dream mostra segni di cedimento. Rappresenta il momento in cui la stanchezza prende il sopravvento dopo tanto battagliare, pezzo minore di un disco che comincia a farsi bulimico e pomposo. Ha un retrogusto – strano ma vero – da Pere Ubu (non a caso rifaranno Final Solution in una versione irrorata di Xanax nel I’ll Show You Mine Ep) ed è l’unico sassolino nell’ingranaggio onirico. Chiude la traccia che titola l’album e – come s’è detto – sono 39 minuti di viaggi astrali tra Pippi Calzelunghe, Spiritualized e muri di feedback impreziositi da falsetti prima che tutto si fratturi per diventare un Metal Machine Music at Pompei. 102 minuti. Al cambio attuale quasi quattro album dei Ramones. Tanto dura la maratona di Everything Picture, una maratona che necessita garretti e resistenza per essere portata a termine. Nulla è immediato in questo disco, niente è regalato all’ascoltatore e se qualcuno di voi necessitasse di maschia foga, bicipiti e testosterone farebbe bene a non metter piede in questo baccanale barocco. Le Colonne d’Ercole degli Ultrasound si inabissano qui, tra tensioni latenti, divergenze sonore, l’accidia di Wood e l’abbandono di Green, vera anima musicale del quintetto, lesto a transumare di lì a poco nei Somatics senza lasciare grosse tracce. Sarà lo stesso Andrew Wood a chiudere l’avventura con poche e concise parole, quasi fosse stata una necessità familiare edificata su scontri e litigi: “non avevamo nulla in comune, non uscivamo in compagnia, non avevamo nemmeno la stessa età… Perchè avremmo dovuto stare assieme per registrare un altro album?”
Same Band, certo.
Serviranno 13 anni per il ritorno a casa: Play For Today (2012) è figliol prodigo in catalogo Fierce Panda. Chiude l’era dei barocchismi ed è – fondamentalmente – un disco di brit pop fuori tempo massimo. Viene trainato da Beautiful Sadness, brano che si sarebbe agevolmente guadagnato tutte le classifiche. Del 1996. Di Real Britannia (2016) si spergiura gran bene avendo ricevuto stellette un po’ ovunque in Albione: da Mojo a Uncut a – ohibò – Prog Magazine. Non mi è ancora entrato a corte (ma posso affermare senza timore di smentita che Kon-Tiki è un pezzone memore del 1998), e resto fortemente dubbioso di poter avere a che fare per l’ennesima volta con Same Band. Tantomeno Stay Young, ‘che il tempo passa per tutti e figuriamoci per loro. Altresì temo, tremo e fremo per ulteriori 102 minuti di musica.
Quindi: ora che avete avuto modo di vedere il mio disco ‘importante e che trascende il mero valore qualitativo’ (che pirla, eh?), mi piacerebbe conoscere il vostro, perché I’ll show you mine if you show me yours all that we have is each other.
Michele Benetello