Billy Mackenzie – Outernational (Circa, 1992)
Nel 1992 Billy Mackenzie è un uomo e un’artista allo sbando. Quello che – esattamente 10 anni prima – era stato il volto e il compositore più astruso (e inclassificabile) occhieggiante dalle copertine delle riviste, il musicista più eccentrico e glam della sua era, l’uomo citato da Morrissey (con il quale si rumoreggiò un flirt) in William, It Was Really Nothing, nel 1992 stava cercando di sopravvivere a se stesso. Ancora per poco però: solo un disco (Beyond The Sun – Nude, 1997), 5 anni e una manciata di pastiglie di Amitriptilina lo separavano dall’oblìo. Un oblìo così ardentemente inseguito lungo tutta una carriera che appellare altalenante è arrotondare per estremo difetto. Una decisa marcia verso la rimozione della sua immagine pubblica e una distruzione scientifica della sua arte. Sabotatore nato, il Billy e – aveste quell’età che si avvicina al mezzo secolo e/o qualche vetusto amico in Inghilterra – saprete che la di lui leggenda si è edificata su bizzarrie (antenati gypsy; concerti punk assieme alla mamma; fughe nel bel mezzo delle registrazioni); trivia (un matrimonio negli Stati Uniti con una probabile erede di Howard Hughes. Per inciso: un omonimo Howard Hughes finirà davvero negli Associates); cazzate inenarrabili (tre bottiglie di Baileys al giorno e la capacità di espellerle a comando) e disastri perseguiti con raro acume, ma anche con almeno quattro o cinque pagine di pop lussuoso, sibarita e inarrivabile. Nel 1992 Billy è un uomo finito dunque, una nota a piè di pagina. È ritornato a vivere a Dundee facendo il pendolare verso l’odiata Londra soltanto nei fine settimana, tanto per rimarcare come quell’arte da lui tanto agognata sia diventata un noioso lavoro. C’è un treno che fa la tratta in poche ore e – ogni venerdì pomeriggio – Billy Mackenzie salta controvoglia in qualche vagone. Ha ancora rare braci della sua scoppiettante ironia e della sua tellurica arte pop; cerca qualcuno disposto a dargli un’ultima possibilità e quel treno è un simbolismo non da poco. Nell’ambiente lo si guarda con un misto di pietà, rispetto e magari con un risolino che riporta ai gloriosi tempi, quando era solito prenotare due suite nei migliori alberghi della capitale e i concierge invece di veder arrivare Alan (Rankine, sodale per osmosi in quella congrega diversamente pop chiamata Associates) dovevano sorbirsi Tonto e Thor, i due levrieri afgani. Deiezioni su persiani purissimi, caviale, salmone stufato, Dom Perignon e il conto (extra cleaning compreso) da inviare alla Wea. Max Hole – che di quella corazzata era il boss – rideva scuotendo il capo e firmava l’assegno. So’ ragazzi.
Del resto Sulk era stato l’album con la A maiuscola, in quel 1982, e – sebbene fosse costato un fottìo per l’epoca – era pur sempre stato acclamato dal Melody Maker quale disco dell’anno, portandosi a casa vendite cospicue, un paio di singoli nella Top Ten e una futuribile epifania in guisa di 45 giri (Party Fears Two) di cui ancor oggi si vagheggia. Non voleste credere a me, Simon Reynolds è lì a certificarlo. Un disco che aveva ridefinito il concetto di pop, portandolo ‘oltre’ con un pomposo agglomerato di arrangiamenti e un istrionico concetto dello studio di registrazione: palloni di elio usati per assorbire i suoni, lastre metalliche fatte vibrare per dare un senso di ampiezza e spazio, chitarre riempite di urina, smodato uso di piste (non solo del mixer) e tubi dell’aspirapolvere usati come microfoni. Doveva suonare ‘costoso’, ebbe a dire la premiata ditta, babilonese negli intenti, sparksiano nel suo edonismo. Così fu. Ma nel business con gli avanzi dei rimpianti ci fai poco. Billy svicola, si cela, scapriccia, punta i piedi, è emotivamente autistico, wagneriano nei confronti della pecunia, dissipata in maniera bulimica. Anela al successo ma quando lo raggiunge ne rifugge, sabotandosi. Gli Associates – una volta intravisto il tetto del mondo tramite Seymour Stein della Sire – svaniscono in una nebbia di dubbi e autocompiacimento. L’uomo è pronto a firmare un contratto da 600.000 dollari su un tovagliolo del Camden Palace per il lancio negli Stati Uniti, ma Billy ne rifugge inorridito. Ha paura, il palco non lo regge, desidera diventare un certosino amanuense dello studio di registrazione. Gli alibi sono intercambiabili ma il risultato no. Alan giustamente s’incazza come un cane (Tonto o Thor?) al quale han sottratto l’osso dorato così faticosamente perseguito e sbatte la porta. Gli Associates non esistono più, viva gli Associates. Sigla da allora faticosamente portata avanti (di lato, meglio) dal solo Billy, che non ne combina una di giusta e ha un talento innato nell’imboccare strade perdute.
Perhaps (Wea, 1985) è un confuso miscuglio di registrazioni durato tre anni e portato al parossismo, un’altra ventagliata da centinaia di migliaia di sterline (Max Hole firma ma comincia a sorridere meno). Nel 1985 il disco è pronto ma Billy è insoddisfatto. Spariscono i nastri. Maigret scuote la testa e non trova il colpevole, Billy sogghigna e lo registra esattamente nello stesso modo, confusione compresa. Manca assai, uno come Alan Rankine (chiedete a The Edge dove abbia imparato ad usare la chitarra come una Gillette Fusion Proglide), eppure c’è Those First Impressions, zuccherino pop come pochi e – soprattutto – Breakfast, la quadratura di un cerchio dove orbitano Scott Walker e Richard Clayderman. Ci puoi vincere Sanremo con una canzone così, o farti venire a prendere sotto casa da Burt Bacharach. Ma Billy non lo sa. Registra un duetto con Annie Lennox (allora davvero la star planetaria per antonomasia) e getta il nastro in un momento di confusione. Gli viene altresì offerta la parte da protagonista e un intero caveau di sterline per Absolute Beginners ma – nonostante un imminente bancarotta e pesanti flirt con l’eroina che lo confinano in uno squat della capitale – rifiuta con garbo. Poi arriva The Glamour Chase e stavolta piscia davvero fuori dal boccale con un’accozzaglia di omo-disco (Reach The Top, manco i Pasadenas), cover astruse in salsa techno-teutonica (Heart Of Glass), folk per boscaioli (Country Boy) e zuccherine ballate pop (Take Me To The Girl). La Wea ne blocca l’uscita (rimarrà inedito fino al 2002). A Max Hole girano i coglioni, smette di firmare e finalmente lo chiama a raccolta. Avrà a raccontarne negli anni – di quell’ultima seduta – con un malcelato senso di nostalgia ma anche con la consapevolezza di essere sempre stato due passi dietro l’incosciente candore autolesionista del Mackenzie.
“Sapevo che Billy non avrebbe mai avuto vendite milionarie, ma a noi non interessava. Era un nome di prestigio nel catalogo, un po’ come Tom Waits per l’Island. Artisti che DEVI avere e per i quali i meri calcoli economici sono ininfluenti. Ma eravamo in rosso di due milioni di sterline e Billy non ne voleva sapere di smettere. Lo chiamai a raccolta e gli dissi che poteva ritenersi libero dal contratto. Non fece una piega. Mi chiese solo se potevo pagargli un taxi per tornare a casa. Certo – dissi – nessun problema. Tempo dopo mi arrivò in ufficio la fattura. Si era fatto riportare a Dundee. Questo era Billy”.
Ci riprova con la Circa Records (sussidiaria Virgin) per l’indeciso Wild And Lonely (1990), dove schiaffa qualche zampata (Fever, un rap come solo Billy Mackenzie poteva intendere; il poppettino sintetico di People We Meet; la solita ballatona col wonderbra di Where There’s Love) ma le unghie hanno la micosi. Pare scientemente deciso a bruciarsi in vampate di combustione artistica.
Nel 1992 Billy Mackenzie è dunque un uomo e un’artista allo sbando, caparbiamente ostinato come quel treno che fa un’unica tratta. Le etichette si guardano bene dall’annetterselo. Porta guai dicono; è un pozzo senza fondo di pretese e sperperi; è capace di chiedere scarpe rosse per tutti gli strumentisti altrimenti si rifiuta di registrare. Si limita a fare noiosa manovalanza e comparsate (Holger Hiller, Barry Adamson, Loom, Boris Grebenshchikov), il suo talento va di pari passo con la sua calvizie: s’incanutisce, si secca, ne perde i bulbi piliferi. Cade a terra senza darlo a vedere. Guarda disincantato un mondo che non gli appartiene più e che – forse – aveva sopravvalutato (tra le righe di Club Country c’è già scritto tutto: if we stick around we’re sure to be looked down upon).
È ancora la Circa a dargli un’ultima possibilità tramite un contratto disseminato di steccati e paletti: vai e non peccare più. Billy fa lo scolaro diligente, il pendolare del quale si disquisiva poc’anzi. Intensi week end di registrazioni assieme ad una manciata di nomi eccellenti (Moritz Von Oswald, Thomas Fehlmann, Boris Blank, Ralf Hertwig) per il primo lavoro solista. Outernational vaga in una terra di nessuno, apolide. La cinica e istrionica verve degli Associates è solo un ricordo, di Babilonia non rimangono nemmeno le macerie. Outernational implode in un junghiano esame di coscienza, dove la tristezza ha un passo da Portishead (sentire la title track, messa come manifesto programmatico ad inizio disco e intrisa di Station To Station). Un disco prettamente elettronico, poco ascrivibile al nostro non fosse per quella supervoce, quivi sfruttata ad un decimo delle proprie possibilità (ma c’è Baby, e poi ne parleremo). Trip hop in odor di seduta psicanalitica, simil house con tentacoli di dolore e la convinzione d’aver fatto il proprio tempo. Billy Mackenzie è un superstite che tenta di rifarsi il verso, adoperandosi con linguaggi consoni ad un periodo storico che non gli appartiene più. Sarà flop pantagruelico (solo 5000 copie vendute), ma pure deciso cambio di rotta, frattura netta tra un ‘prima’ isterico pieno di lustrini e paillettes e un ‘dopo’ francescano.
Un disco che ha un avanzare felino, che non sgomita e anzi sceglie scientemente di rimanere nelle retrovie, al freddo e al gelo. Un album glaciale e anaffettivo, di crioterapica bellezza edificata su suoni e racconti. Un disco da aperitivo delle proprie consapevolezze. Feels Like The Richtergroove deboleggia su canovacci cari a The Glamour Chase (e probabilmente ne è un candido scarto) tra reminiscenze acid house vestite bene e i Fluke. Billy gigioneggia con svisate d’ugola rhythm and blues ma la discesa libera di patimenti è già cominciata (those heartbreak moves just bring me closer dreaming myself away, I count the days until they’re closer). Opal Krusch è un canto alla Faithless, un downtempo che porge la guancia a Bachelorette di Bjork. Colours Will Come (singolo estratto) non le manda a dire col suo in(ter)cedere da MTV: “the message is clear, you are what you fear in this world of confusion”. Ritornello da opera pop (Poperetta, no? Tanto per citare), allure da Paradise Garage (Larry Levan avrebbe gradito eccome) e grandissima performance vocale, ma anche illusione pressante di un’inconsistenza che farà grandi gli Hot Chip. E poi il superbo gotha: Pastime Paradise, miglior interpretazione dello Stefano Meraviglia di sempre (assieme a quella di Ray Barreto). Tra incedere reggae e una supervoce sempre sul punto di trattenere gli ottani scoppiettanti. Wonder, appunto. Coolio, di lì a poco, prenderà scrupolosa nota e royalties; non così l’etichetta che lo annuncia come probabile singolo e ne tiene ibernate le copie. Grooveature ci riporta a terra sulle ali di una edonistica depressione. Billy si limita a sussurrare, cinematografico quanto un fotogramma di Scandalo Al Sole, anticipando il new soul che di lì a poco si andrà a dipanare. Sacrifice And Be Sacrificed è un’allupata pantera deep house disegnata sul cofano di una Rolls Royce; brano da notte fonda e da ultimo bicchiere lavato male, mentre piovono nuvole su porfidi resi sdrucciolevoli dalle lacrime degli amanti. Brano costruito sul nulla, riverberato da spifferi d’assenze e con Shirley Bassey quale santino che occhieggia dal cruscotto, ondeggiando. “Vai piano, Billy”. E poi Baby, e lì viene giù il firmamento. Scritta in combutta con gli Yello esplode (anche su singolo) in una immensa resa vocale, adagiata su una scrittura pop anni sessanta, su cirrocumuli di tastiere in penombra e un ritornello inarrivabile. Una Never Turn Your Back On Mother Earth (Sparks) da dopo bomba. A quei 5000 coraggiosi di poco sopra (minoranza silenziosa alla quale mi pregio d’appartenere) andrebbe dato un premio alla lungimiranza.
Un disco che avrebbe potuto essere grande Outernational, immerso nel cemento a presa rapida del dolore di un uomo appesantito dalla vita, consapevole di non aver più nulla da dire e per questo deciso di dirlo al meglio delle proprie possibilità. What Made Me Turn On The Lights si spaccia in sordina tra gli apici del lavoro, schernendosi. La si immagina adagiata su Protection dei Massive Attack senza apparire sacrilegio o ucronia musicale. E chissà davvero cosa sarebbe stato quel disco se impreziosito in qualche passo dalla voce del nostro. In Windows All chiude cristallizzando il futuro. Echi da Blade Runner e da innamorati Kraftwerk per una ballata romantica che avrebbe dovuto apparire su The Glamour Chase. Un’esca che porterà dritto – con uno iato di cinque anni – a Beyond The Sun e alla morte di uno dei più eccentrici e visionari talenti pop che l’Inghilterra abbia mai avuto. Outernational – a dispetto del suo quarto di secolo – rimane disco notturno, da sfrecciare su lunghe autostrade, perdendosi in zone industriali abbandonate; un lavoro che ha acquisito consapevolezza e spessore con il passare del tempo. Fate come quei 5000, siete sempre in tempo, magari con la puntuale ristampa Cherry Red del 2013.
“È vero che ognuno ha i suoi 15 minuti di notorietà, resta il fatto che io ne ho avuti solo sette e mezzo.”
“Con i soldi dell’anticipo per Sulk mi comprai una Mercedes. Non ho mai avuto la patente quindi dovetti assumere un’autista. Donna. Facevamo lunghi giri per le strade di Londra mentre mi masturbavo sul sedile posteriore. Non so che fine abbia fatto quella Mercedes.”
Questo era Billy.
Michele Benetello