Enzo MaolucciBarbari e Bar (I Dischi dello Zodiaco, 1978)


Non vado più al bar, da anni. Non c’è nemmeno più ‘un bar’, a dirla tutta. Un bar come si deve, intendo; non quelle leziosità da colazioni e aperitivi che chiudono rigorosamente alle otto (alle ‘venti’, scusate). Cazzo chiudi alle otto? Cosa sei, un furgoncino della Bo Frost? Uno sportello dell’Agenzia delle entrate? L’Ikea? Un supermercato bio? Il bar, soprattutto quelli decentrati – che ‘periferia is the new loud’ – sono dei posti di ristoro mica da ridere, e voi potete smerigliarmi la cippa ad lib con i vostri salatini, la pasticceria mignon e il macchiato in tazza grande con il cuoricino sopra, la soia e il cacao magro. Mavaffanculo te e quegli orrori, amico.

Vuoi mettere un bar come si deve? Di quelli che puzzano di sudore, calce viva e linoleum unto? Di quelli che stanno sparendo e forse solo in qualche sperduto promontorio dell’Appennino o nella provincia meno caotica ancora resistono, tra un vecchio con la testa dentro il calice di rosso e la vegliarda dai capelli blu e le calze sempre smagliate, incazzata col mondo ma pronta a infilare il naso per chiedere i Gratta&Vinci? No, dico… vuoi mettere? Sono spariti, quei bar, hanno fatto la fine della gloriosa mezzala calcistica, impacciata retorica da Stefano Benni o Ligabue e poco altro. La stessa che sto facendo io, chiaro. Non potevi fermare la provincia o certi quartieri periferici delle città di media grandezza, erano organismi che nulla avevano a che vedere con il rispettabile – e molliccio – centro. E non era manco questione di spiccia lotta di classe. Non solo, quantomeno; che a quegli anni settanta un’obiettiva rispolveratina andrebbe fatta, accidenti. Se è pulito non è un bar: regola numero uno. Le brioches devono essere stantìe o quantomeno confezionate: regola numero due. Il gestore deve avere una preparazione junghiana per sopportare gli avventori; regola numero tre. Mica ci fermiamo qui eh. Numero quattro: bestemmie esotiche. Numero cinque: si parla di figa, calcio e rock and roll, senza tanto ciurlare nel manico ed esattamente in quest’ordine. Se vuoi entrare per catechizzarci con Hegel, Baricco o Banksy, beh… Catechizzali a casa tua, che questo è un ring di nasi rotti e venuzze arrossate non un planisferio di cervelli intonsi.

Accidenti, c’ho dei ricordi in quel bar che nemmeno le imboscate nei ripostigli della scuola possono competere. C’era il sosia di Jimmy Somerville, tanto per cominciare. Identico. Uno Smalltown Boy tanto small. Non parlava mai, si appoggiava al banco di prima mattina e beveva una serie impressionante di calici di rosso senza proferir favella. C’era uno stronzo di mezza età che aveva scialacquato una vita a bordelli e – nei suoi momenti migliori, tra un’invettiva maligna e l’altra – alzava le sedie con i denti. C’era un vecchio con tre anelli d’oro grandi come noci che si sedeva sempre di fianco al bancone e non andava assolutamente disturbato, uno che ti raccontava come curarsi lo scolo do it yourself con abluzioni saline. ‘Te lo devi sparare dentro l’uretra con una cannuccia o una pompetta. Brucia e devi stringere i denti, ma così almeno non ti fai maneggiare l’affare da qualche medico ricchione. Perchè io non lo sono, chiaro?’ ‘Ah, beh, certo… grazie per il consiglio’. C’era il satanista buono come il pane, uno convinto di essere un membro dei Black Widow. Solve et Coagula. C’era la mazza da baseball sotto il bancone, scleri assortiti quotidiani e periodi di risse – pesanti – continue. Carabinieri, ergastolani, ragazzine timorate di Dio e Southern Comfort. Tanto Southern Comfort.

E vi posso dire anche il giorno in cui sentii di avere una casa e un’ambasciata in territorio ostile: 5 maggio 1998. “Ei fu”. Un martedì, mi pare. Di ritorno da una cena di pesce decisi di fermarmi per dare una chance a questa nuova gestione, tanto più che vi bazzicavano un bel po’ di personaggi con i quali ero solito trovarmi a mio agio. Una slot machine sopra i gelati, puzza di fumo, appiciccaticcio in terra, una sfilza di bottiglie da paura e una rivista con Asia Carrera (che non era propriamente una Porsche. O forse sì) a svettare. Calendario del gommista a far pendant in duplice filar. Non serviva altro. L’avevo frequentato nei primissimi anni ottanta quel postaccio, in una improbabile gestione edificata su racconti hard core del titolare e sacchetti di patatine. Durò qualche anno e poi andò tutto in malora, innescando una girandola di gestori che non avevano la minima idea di cosa si sarebbero accollati. Almeno fino a quel maggio di fioretti.
E’ il posto che fa per me, mi dissi, e non solo per la Carrera; che non era propriamente una Porsche. O forse sì. E nemmeno per i ricordi delle patatine. Così diventò il mio Buen Retiro e il mio Taj Mahal. Ogni santo giorno che Iddio mandava in terra io ero lì, immolato su quelle rumorose saracinesche e alle bestemmie esotiche (il punto quattro) che trasudavano dai muri. Abbarbicato alle tavole di fòrmica, con il gomito sul bancone e le gambe incrociate a discettare amabilmente di calcio, musica, desaparecidos, ciccette. E della Carrera. Che non era propriamente una Porsche. O forse sì.  Avevo (avevamo, si era un nutrito gruppo) organizzato le uscite comparandole alla quotidianità, ergo dal lunedì al venerdì era tutto un timbrare il cartellino: capatina post lavoro alle 18 per captare chi ci sarebbe stato durante la serata e il tuffo carpiato (spesso con un coefficente abominevole) dopo cena. Una partita a carte, un po’ di MTV nella angusta sala giochi, due colpi al flipper, tre soldini al juke box con la selezione ferma al 1982 (Din Daa Daa di George Kranz un must, lì dentro, cantato da precchi avventori con una impressionante serie di rutti) e un Southern Comfort. Poi nanna, come cherubini. Ma dal venerdì… Oh, dal venerdì era Exile On Main Street. Appuntamento inderogabile alle 21,30, impeccabilmente vestiti. Tequila (non Tila), Southern Comfort, Tequila, Vodka. Tequila. Tequila. E poi via col nightclubbing più sfrenato, spesso portandoci dietro l’amato barista, ‘che quelle saracinesche sferragliavano come Blixa e a noi partiva l’embolo da quanto ci pareva d’essere a Soho nel 1956.

Sapete quando ci si riempie la bocca – soprattutto nei luoghi di lavoro – con la fetida frase ‘siamo una grande famiglia’? Ecco, noi lo eravamo davvero. In una maniera difficile da spiegare ma che aveva una solida base, ovvero quella di essere tutti incollati alla stessa classe sociale. Spiaccicati sopra come mosche anaffettive. Nessun principino stizzoso, qualche lupo spelacchiato e un bel po’ di disadattati (categoria, quest’ultima, nella quale non mi riconosco. Sottolineo). Non era raro portare a casa in spalle qualcuno privo di conoscenza. Non era raro scambiare quattro chiacchiere con qualche Scarface dalle nocche tatuate e dal codice fiscale nebuloso. Così come non era raro veder sgattaiolare individui (di entrambi i sessi) dietro la porta che conduceva alla cambusa. Kambusa One, l’amaricante. Beata gioventù, immolatasi su ferite difficilmente rimarginabili e su un’errata percezione di invincibilità che è peculiare per quell’età. Ho visto ragazze piangere e coetanei cadere per terra; coltelli e uomini in divisa. Ho visto botte e baci; schiaffi e copule; bottiglie e proposte di matrimonio. Ho visto un sacco di cose, seduto sulle sedie che s’affacciavano in strada, al freddo e con quell’orrido Jagermeister che fingeva di farmi digerire. Sarebbe stata più funzionale la Carrera, che non era propriamente una…

Parlavamo di dischi, anche. Tantissimi e i più disparati vista l’eterogeneità degli avventori. Non era un Groucho Club, ecco, che se c’era da sporcarsi le scarpe di fango con gli Skunk Anansie, Lenny Kravitz o – addirittura, vedi #30 – Madonna mica ci tiravamo indietro e anzi si faceva notte fonda.

È che allora non avevo la minima consapevolezza che nel 1978 un incazzato cantautore torinese avesse dato alle stampe un velenoso daze bao in musica chiamato Barbari e Bar. L’avessi saputo sarebbe radicamente aumentata la percezione dell’importanza di quei tavoli di fòrmica. Vi cozzai contro tre lustri abbondanti dopo, in modo rocambolesco e Hornby-ano, tramite interposta persona che, a 2 euro cadauno, svendeva la collezione di dischi del cognato. Era audioleso – l’interposto non il cognato – e capirsi fu assai difficile nonostante una discreta lista in word. Insomma, presi una ventina di pezzi, alcuni dei quali a scatola chiusa. Maolucci era uno di quelli. Mi catturò da subito con quell’aria da Luciano Lutring e quei testi crudi e dolorosi che pochi uguali ebbero (e hanno) nella discografia italiana. Cercai di informarmi, scoprendo un misconosciuto ma eccentrico cantautore sabaudo, laureatosi con una tesi dal titolo Beat e Beatles (la prima in Italia di argomento musicale) così come era prima anche la radio libera da lui fondata (Radio Torino Alternativa). Maolucci aveva una carriera antagonista di tutto rispetto, ben lontana dagli afflati prèt-a-porter dei 99 PoSe; aveva organizzato dibattiti per la Fondazione Agnelli e partecipato a L’Altra Domenica di Arbore ai tempi dell’esordio (L’Industria dell’Obbligo – I Dischi dello Zodiaco, 1978). Maolucci era uno che – a tempo perso – suonava la chitarra. Eppure i bar cantati in questi otto brani sono tutti cittadini, completamente diversi da quello che accoglieva le mie terga ogni sera. Qui non vi è spazio per la – appunto – retorica di provincia del volemose bene dopo esserci tirati due pugni. Qui si faceva sul serio: droghe pesanti, violenze, cinismo e sputi. Si immerge nella Torino degli anni di piombo senza mandarle a dire, colpendo furiosamente ovunque con liriche affilate e crude che fanno sembrare L’Avvelenata di Guccini la Barbie Girl degli Aqua. Oggi verrebbe messo al bando senza indugio alcuno ma allora ci si poteva permettere di essere liberi, perchè per esserlo bisogna anche volerlo, sia chiaro.

Lo cerco furiosamente tra le cataste dove il caos acquista una parvenza di ordine e lo ritrovo acuminato e tagliente come ricordavo, intriso di Lolli, Guccini, un Bennato con i canini immersi nelle viscere, eskimo e Lotta Continua. Affianca l’epopea di Finardi e Camerini con una rabbia (e una lucidità) udite poche volte in patrio suolo ma ha anche il grande demerito di arrivare in un momento storico dove la figura del cantautore impegnato è inflazionata. Maolucci va oltre però, usando la penna come un rasoio da killer prezzolato. Un disco, lucido, crudo, anacronistico finchè si vuole ma necessario, e chissà che qualcuno si decida a ristamparlo su adeguato supporto. Comincia subito con la bomba: Torino che non è New York tirando di spada.

Si ammazzano a Torino, Torino che non è New York. La diva, suicida arrapante, ha fatto piangere presidenti americani e la mezz’ala ammazzata per gioco demente ha fatto piangere i romani scemi.
Ad altri basta invece un bel maschiaccio senza poesia, ma ti pesa sai, gioia mia, e ci crepi “vecchia checca”, sangue e rimmel tra le mani…

Scarnifica Pavese, Re Cecconi (o Gigi Meroni, chissà), la Monroe, Buscaglione, Pasolini, Tenco. Ne dissacra le morti su un corposo arrangiamento dal vago sapore rock e mi piacerebbe assai che qualche buontempone avesse l’ardire di pubblicare tutti i testi su un agile volumetto. Così, giusto per esporsi al rancore social o prendersi quel paio di denunce che fanno curriculum. L’apocalisse continua con Al Bar Elena dove, su una base sorniona di pop italiano ‘impegnato’ piscia raffiche infuocate (Al Bar Elena non ci torno più. Entro al Bar Castello, me ne bevo un altro. La padrona con il cancro è sempre là. Da dieci anni non mi fa pietà). Un Giorno da Leone anticipa lo swing di Sergio Caputo innestandolo negli Area e nella PFM in una convergenza parallela da Mariano Rumor. Chi ha interrotto Stockhausen racconta il momento in cui il nostro andava ad interrompere i famosi minuti di silenzio del maestro davanti ad una platea già allora snob. Finisce sulle pagine dei giornali e ci scrive una canzone alla Guccini. Il fascino discreto della borghesia morta anche oggi suonerebbe così. Il Barbaro Ulisse è una rasoiata in pieno petto celata dentro un pop rock di grana fina. “Le ore 7 e 20 minuti di coraggio: la sveglia telefonica è un destino come un altro. Mi può strappare via da un orgasmo tutto mio oppure può salvarmi dall’incubo più vero. Per un sinistro impiegato di lotta come me il primo intervento contro il giorno è una bestemmia (per niente alternativa. Le ore 8 e 20 minuti di erotismo: segretaria premestruale da spogliare in ascensore. Sbadigli interpretati come smorfie di piacere ma la porta si apre sempre mentre sento di venire). La ascolto e mi sento come chi sa piangere, di notte, alla mia età. E scovatelo voi, uno così, oggi. Al Bar di Vasco ha dei fiati meravigliosi e una scrittura gregoriana (da De Gregori) che sa farsi forte (da Fortis). Anche …E grazie Miller è un’introspezione che sa da continuum con la precedente; sono le due ali che conducono alla chiusura, affidata alla title track, un pop rock dai cambi ritmici repentini nel quale la rabbia si annacqua per donare una parvenza di luce alla fine di un disco liricamente non facile.

Oggi, che di barbari siam pieni, quel luogo dell’anima che mi allietò la fine del millennio non esiste più; è stato sostituito da uno di quei postacci alla apericazzo, brioches al pistacchio e crostini al salmone. Lacca, botti, vetri, specchi, bicchieri che pesano quanto un piatto di pasta, sopracciglia sfumate, cocktail, scarpe di legno senza calzini e reggiseno a balconcino. Un erotodromo di mezza età (che Maolucci avrebbe raso al fuoco con l’Agent Orange) dove vige una sola parola d’ordine: “posso aggiungerti al gruppo di whatsapp?”. Il nostro barista è scappato all’estero con la cassa e un buco nero, ma quando se n’è andato il soldo di cacio di Somerville gli ha detto ‘Don’t Leave Me This Way’. Senza alcun falsetto.

Post scriptum: e Mao-lucci? C’ho perso il sonno e i polpastrelli per scovare notizie fresche dacchè il presenzialismo non è mai stata la sua arma migliore. Nel 1980 brevetta una chitarra elettrica prodotta dalla Eko (la Short-Gun M33, chi ce l’ha batta un colpo di plettro, grazie), incide una manciata di dischi (L’Immaginata, Tropico del Toro, De Liberata Mente – quest’ultimo mai pubblicato) e poi sparisce per due decadi abbondanti. Oggi il nostro ha settant’anni, portati come ognuno desidererebbe, è il presidente della Federazione Italiana Survival  Sportivo Sperimentale (FISSS), disciplina da lui inventata e promossa nel 1986 a livello nazionale. Collabora con il Salgari Campus, un vero e proprio campo di allenamento di 120 mila metri quadri sulle colline torinesi dividendo il proprio tempo tra spedizioni in zone impervie e primordiali dell’Africa e il meritato relax nella sua casa sulla spiaggia a Msambweni, nella costa sud del Kenya. Torino non sarà New York, ma Nairobi sì.

Michele Benetello


2 risposte a “I dischi che piacciono solo a me, credo #40”

  1. Avatar Aldo Santarelli
    Aldo Santarelli

    Racconto, recensione, pezzo, di altissimo valore e spessore, l’autore è tra i più validi che abbiamo
    in ucampoletterario/musicale. Sicuramente, per me, il numero 1.

    1. Avatar Mic
      Mic

      Grazie Aldone. Mi imbarazzi. Respect ✊

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