Le Orme – Verità Nascoste (Philips, 1976)
Me li ricordo bene i Giochi Olimpici di Montreal. In effetti sono i primi che ricordo con un reale e pressante trasporto; ero davanti alla tv quando Nadia Comaneci bloccò il tabellone elettronico, il mondo intero e il mio ingenuo cuoricino, pieno di palpitazioni verso quella morettina snodabile. Che epifania, signori! Eguagliata dall’altro 10, quello della sovietica Nelli Kim. A Monaco ero troppo piccolo per avere una visione nitida, e oltre al noioso ‘man bassa’ di Mark Spitz, alle spalle da Lou Ferrigno di Kornelia Ender e ai fattacci di Settembre Nero ho una vaga nebulosa. Dell’esibizione di Olga Korbut con il primo salto mortale all’indietro alle parallele asimmetriche non conservo ricordo, per dire. Ed è un bel cruccio. Ma si parla di quasi mezzo secolo fa, siate clementi. A Montreal no; a Montreal ero ben focalizzato, tanto che mi ero ripromesso di finire pure la raccolta delle figurine con una caparbietà a me sconosciuta fino ad allora, impresa che invece mi era riuscita pochi mesi prima solo per il coevo Sandokan (merito della Perla di Labuan, sia chiaro) rimanendo unico traguardo ever.
Che meraviglia quell’album dalla copertina rosso fuoco, e che patema d’animo ogni domenica mattina alle 9,30 quando – con i miei sudatissimi risparmi settimanali e qualche rara mancia – mi fiondavo all’edicola a fare incetta di sportivi mentre la radio mandava In Zaire di Johnny Wakelin. Persino le bustine (non fate della facile ironia) avevano un odore diverso. Passavo i primi minuti seduto sugli scalini del cortile ad annusare quell’aroma speziato da colla e carta patinata. Un godimento inenarrabile e inconcepibile per tutti i figli della rete e delle rate. Come che sia ebbi grandi soddisfazioni da quei Giochi Olimpici, forse gli ultimi con qualche barlume di trasparenza visto che di lì a poco sarebbero giunti i boicottaggi e le superstar. Che poi, non fu esente da boicottaggi nemmeno l’edizione canadese, ma converrete che una cosa è essere privi della Guyana, l’altra degli Stati Uniti. Almeno a livello sportivo, sul resto potremmo agevolmente discuterne.
E poi c’era la DDR, accidenti. Così vicina e così lontana, così piena di affascinanti e terribili misteri, di atleti morfologicamente perfetti, di macchine programmate per sconfiggere il tempo, lo spazio e la gravità che neanche una canzone di Battiato. Un pezzo di misterioso e subdolo oriente racchiuso in uno scrigno d’occidente. Che inno sublime, che divise fascinosamente marziali, che sguardi geometrici e costruttivisti. Se la giocava con la Russia nelle mie preferenze, ‘che quelli avevano rigore, rigidità e un unico obiettivo: il medagliere. In ogni caso ricordo parecchio di Montreal: Juantorena; la Ackermann; il salto di Sara Simeoni; Lasse Viren (diobon, che uomo). Finanche il ripetersi ad altissimi livelli della Ender e l’impresa storica di Fabio Dal Zotto. Ricordo il giapponese Shun Fujimoto che gareggia agli anelli con un ginocchio fuori uso, perdendo i sensi e i legamenti all’uscita dall’esercizio. Rammento pure il primo scandalo per doping nell’atletica leggera (la polacca Danuta Rosani) e l’assoluta mancanza di medaglie d’oro della nazione organizzatrice (non era mai successo). E ancora: la furbata del maggiore sovietico Boris Onishchenko che nel pentathlon – alla prova di scherma – inserì all’interno della propria spada un congegno elettronico che segnalava (a comando) sul tabellone il colpo inferto all’avversario. Degno del miglior cattivone di 007 (per la cronaca: dopo il fattaccio il tenero Boris venne degradato e finì col fare il bagnino nella piscina comunale di Kiev).
Ma più di tutto ricordo quelle figurine profumate.
Stavo schiudendo il bozzolo che mi aveva fatto scudo, cominciavano a piacermi le cose ‘da grande’: i primi numeri di Ciao 2001; le classifiche alla radio; il paginone centrale di Playboy. Attendevo le giostre con ansia immotivata, ultimo scampolo d’estate e l’equivalente di quello che sarebbe stato John Peel o Rockerilla, di lì a poco. Il polso del pop l’avevo tramite i dischi passati in lunghe nottate agli autoscontri, che quei giostrai avevano un fiuto infallibile nello scegliere (e prevedere) i riempipista più torridi. Vi potrei snocciolare decine e decine di pezzi che ad ogni imbrunire mi si spargevano addosso schivando i rumori dei Go Kart, dei dischi volanti (come li chiamate voi?) e di tutte quelle lucine colorate. Da Franco Simone (Tu e così sia) a Anita Ward (Ring My Bell) passando attraverso Non si può morire dentro di Gianni Bella per qualche anno riuscii ad avere il polso della situazione pop del mio paese; impresa eroica che – credo – nessuno dei miei coetanei riuscirà più ad eguagliare. Mi appoggiavo al muro del Municipio alle 19,30 del Venerdì sera e sapevo snocciolare l’intera scaletta degli autoscontri soltanto sbirciando il colore delle copertine dei 45 giri, bissando il palmarès anche la domenica mattina, quando era tutto un florilegio di gonnelline scampanate, teppistume sparso e Umberti Tozzi. Dan Dabadam Dabadam Daba Dam Bam Bam Bam Bam.
Una e una soltanto però – di canzone – in quel finir dell’estate 1976, aveva adombrato la mia cassa toracica; anzi due. Provenivano entrambe da una strana ed ammaliante vocina (quella di Aldo Tagliapietra) che mi è rimasta tatuata addosso e reputo ancor oggi tra le migliori di sempre, non solo in patrio suolo: Canzone d’Amore (rivedetevi sul Tubo la performance al Festivalbar e poi fatevi due conti con l’oggidì) e – poco dopo – Regina al Troubadour. Firmate: Le Orme. Corregionali, dicevano gli amici che potevano avere accesso settimanale a Sorrisi e Canzoni TV. Gruppo (non le chiamavamo ancora band: i Dik Dik erano un gruppo, così come La Strana Società o I Nuovi Angeli) di stanza a Mestre, ovvero due sputi da dove abitavo io. Due sputi ma anche due anni luce se dovevi affrontare il Terraglio, arteria napoleonica con traffico da Città del Messico. Mica sapevo allora che Regina al Troubadour fosse la nostra There She Goes ante litteram. Era una canzone di vaniglia triste e con il piombo ai piedi, pare parlasse di una vecchia amica dei nostri perduta nelle spire dell’eroina, e dietro quella resina armonica lo spleen era pressante assai. Mi ci tuffai di petto.
Verità Nascoste era stato arrangiato da Keith Spencer Allen, fidato scudiero di Vangelis e pronto a transumare ovunque, dai Chrisma con la ci acca a Cocciante. E sono poche le ba… scusate: i gruppi italiani a me così cari. Pochi, pochissimi. Tanto che, una volta più grandicello, potei permettermi di approcciarli con cognizione di causa, scoprendo dischi bellissimi e in particolare uno, snobbato dagli scampanati fan del quartetto: questo. Via Tolo Marton (e la sua chitarra sovente in odor di blues onanista) e dentro Germano Serafin. Via anche Gian Piero Reverberi, deus ex machina e produttore cum grano salis dei lavori precedenti. Via le suites lisergiche in virtù di un pop certosino dal retrogusto sinfonico. Via tutto, si azzera. È qui che si compie la parabola de Le Orme, catturati in un momento di lucidissimo vezzo popolare. Allontanatisi da certo progressive (anzi: pregressive) più minimalista (citofonare a Peter Hammil che curò i testi proprio per una versione inglese di questo disco) per esplorare definitivamente il pop. A proposito: quella “d’amore” era uscita solo su singolo facendo sfracelli un po’ ovunque con la sua torbida coda in odor di funk. Nulla la riporta alle sonorità di Verità Nascoste, da subito crocifisso come album autoreferenziale, didascalico, scaduto nel più bieco ammiccar di classifica, abbandonando di fatto quella maestria strumentistica che aveva reso Le Orme un autentico patrimonio italiano al pari di PFM e Banco del Mutuo Soccorso. Dovevo spendere soldi in figurine altrimenti mi sarei immolato affinché tutte queste presunte verità nascoste – imboccateci dai soloni del tempo – si palesassero. Se loro non riuscivano a capirlo non era colpa mia, io avevo ore di dirette televisive da seguire. Il 18 febbraio 1977 – dopo aver raggiunto l’aria rarefatta della vetta soltanto due settimane prima – l’album è ancora al numero tre della classifica italiana, dietro Santana e Donna Summer. Le Orme diventano ‘impronte’ pesanti lungo il tortuoso sentiero del pop italiano, e sono proprio le presunte cadute di tono e ispirazione a dare quel quid ad un gruppo che voleva fortissimamente cominciare a capitalizzare.
La Philips non bada a spese, le registrazioni vengono effettuate ai londinesi Nemo Studios di proprietà di Vangelis; la manovalanza dispiegata a supporto è di lusso: dalla biondissima Marlis Duncklau (tecnico del suono che di lì a poco accompagnerà Peter Gabriel) a John Forrester (Frank Zappa); da Sidney Margo (John Barry, Harry Nilsson, Bing Crosby, Grace Slick) a William Skeat (eoni dopo addirittura su Post di Bjork). Un disco che reputo ancora bellissimo nonostante l’ostracismo dei fan terminali, e se vi sembro Vincenzo Mollica dovrei affidarmi a Insieme al Concerto, ovvero i sei minuti e quattro secondi che vanno ad aprire le otto tracce con una nevralgica e muscolosa presa di posizione. Pochi i rimasugli sinfonici che erano soliti contraddistinguere Tagliapietra e sodali. Chitarre e tastiere (da segnalare l’opera del nuovo arrivato Germano Serafin) ad incastrarsi come in un cubo di Rubik armonico. Tolta una coda che farà grande Dave Formula e i Magazine vi è maggior attenzione alla canzone comunemente intesa; un po’ come Ora O Mai Più nel precedente Smogmagica (Philips, 1975). In Ottobre svisa su un funk gelido e bianco, un Blue Rondò A La Turk (già loro singolo del 1973, rilettura dello standard del Dave Brubeck’s Quartet) sotto Lexotan spiegato alle masse dell’austerity; impagabile lavoro percussionistico di Michi Dei Rossi e porta quantica verso l’acustica poesia di Verità Nascoste (Vorrei raccogliere il tuo mondo e liberare i grandi sogni, e colorare i tuoi disegni di disperate notti bianche, e ridere come chi vince la sua vita in un gioco perdente). Quasi un madrigale irrobustito e impreziosito da quartetti d’archi e un diafano flauto traverso. A pareggiare giunge Vedi Amsterdam… complicato e nervoso origami progressive, unica concessione ad un passato prossimo ancora fresco. Contrappunti di assenze percussive, scale mobili armoniche e una denuncia sociale che apre proprio a Regina Al Troubadour ovvero – forse, con quasi sette minuti di durata – uno dei 45 giri meno commercia(bi)li che abbiano toccato la top ten italiana. Un ottovolante di amplessi ritmici, ponti strumentali, cambi strutturali e schizofreniche alternanze tra velocità e brusche frenate. Tony Pagliuca fa gli straordinari con un massiccio uso di Clavinet, Mellotron e sintetizzatori Honer, chiudendo con una maratona che brucia i polmoni. In una parola: insuperabile. Radiofelicità smorza i toni con un geniale synth pop alla Silicon Teens ante litteram (ancora il Moog di Pagliuca) caramellato da trucchi (ad ascoltare con attenzione in sottofondo, a sprazzi, si sente una radio suonare I Can’t Control Myself dei Troggs) e una zampillante strofa acustica. I Salmoni si sarebbe adagiata da Dio su Una Giornata Uggiosa di Battisti con quelle strofe a rincorrere un lavoro percussivo semplicemente straordinario nella sua semplice incisività (Michi Dei Rossi in quel preciso istante è il miglior batterista italiano). Lo sai sì, dobbiamo far così andare sempre in su, controcorrente, risalire il fiume, raggiungere la fonte. Il Gradino Più Stretto Del Cielo anela alla PFM ma finisce con il lambire le terga di certi Queen in salsa hard blues e riesce ancor oggi – 43 anni dopo – a lasciarmi sempre un po’ basito. Scartavo figurine fischiettando “non puoi guarire i mali di ogni uomo con la tua medicina” o “sta girando il sole intorno a nooooiiii, senti il mondo che non grida piuuuù” promettendo a me stesso che – un giorno – avrei approfondito assai questo strano gruppo così schizofrenico nel suo canzoniere, fosse solo per la vicinanza geografica. Così feci, scoprendo un passato intonso (Ad Gloriam; Felona e Sorona) e altre opere meritorie di lì a venire (Storia o Leggenda; Florian; Piccola Rapsodia dell’Ape). Ma è qui, su Verità Nascoste, che l’epopea de Le Orme comincia a disgregarsi in un turbine di litigi, defezioni e battaglie legali nonostante due inutili partecipazioni al Festival di Sanremo in guisa di accanimento terapeutico. Se ne andranno poco alla volta, quasi ‘progressivamente’, come il mio interesse per le giostre.
A pochi giorni dalla chiusura dei Giochi ero a rota come la regina del 45 giri: mi mancavano tre figurine, tra cui un velocista canadese. Avrei potuto vincere anche io il mio primo oro, se fossi riuscito a portare a compimento l’impresa. Me la giocavo con uno stronzetto tutto gambe e ciuffo, molliccioso assai. Uno che non vedo da 30 anni almeno e con il quale non ci siamo mai presi granché bene – e non per colpa delle figurine, se capite cosa intendo – sebbene avessimo parecchie passioni in comune. O forse proprio per quello. In ogni caso il marrano aveva tre (tre! T.R.E.!) figurine del velocista canadese, e mi ‘tirò scemo’ per un tempo che a me parve interminabile prima di decidere che non avrebbe ceduto il suo malloppo neanche morto. No, neanche dietro uno scambio da usura, nemmeno per una settimana di merendine o qualsiasi altra cosa (legale). “Non hai niente che a me possa interessare” chiosò con aria di sufficienza, mortificandomi assai. Lo sapevo, che diamine, ma non serviva ribadirlo davanti a metà classe guadagnandosi i miei strali in saecula saeculorum. Le Olimpiadi finirono e lo stronzetto si beccò la medaglia d’oro lasciandomi al palo; il suo album rosso fuoco era bello che terminato, con una nutrita dose di doppioni sghignazzanti gelosamente custoditi nel forziere. Io? Io rimasi bloccato a meno tre. Sprangato dentro quelle mancanze. Delle altre due mi importava relativamente – non erano così importanti nel computo – come se avessi potuto scovarle in ogni momento. E’ quel velocista che bruciava e ancora brucia. Di quell’uomo sorridente a piè di pagina ho perduto tutti i ricordi (nome, ecc.) ma quella figurina… Oh cazzo, quella figurina non l’ho mai dimenticata e me la tengo stretta tra i ricordi assieme a Ring My Bell e al santino di Aldo Tagliapietra.
“Ora ascolta le mie parole fai posare la mente stanca questo fragile amore folle è tutto quel che hai. Tienlo caro”
Michele Benetello