Bagarre – Circus (Sauvage Musique, 1982)
Abbiamo un vantaggio, noi nati e cresciuti nella – da sempre ignorante – provincia, un vantaggio abissale rispetto ai cittadini forgiati in asettiche vie laiche edificate su cineforum e vernissage. Un vantaggio che bilancia ed equilibra tutti i contro (e sono molti) ai quali siamo stati esposti, soprattutto durante l’adolescenza. La provincia ha radici diverse, poco irrorate dall’esposizione alle intemperie della cultura. In provincia è tutto doppiamente difficile, siamo una sorta di paria, reietti dal sacro cerchio magico di ‘dove le cose accadono’. I ‘the nigger of the world’. Però nasciamo con la dotazione di piccoli surplus che surclassano nettamente le piccole o grandi città che si affacciano sul suolo italico. L’adattamento, ad esempio.
La ‘Sagra di paese’ è uno di quei surplus. E sono sicuro che nessun cittadino abbia mai potuto gustare tra le narici o nell’anima quel misto di divertimento laico, religione un tanto al chilo, paganesimo spiccio, sociologia profonda, rutto libero e social network terricolo e rupestre ante litteram. Chi non proviene dalla provincia profonda ha (aveva, oggi le cose sono nettamente meno distinte) difficoltà ad ambientarsi in quel groviglio di follia e divertimento bulimico. Per quanto – appunto – oggi sia tutto scemato in un miscelatore insulso, dietetico e politicamente corretto. Ma aveste potuto approcciare le Sagre di paese nei tardi settanta o primissimi ottanta (sopravvivendo alle risse o al traffico alcolico) vi sarebbe sembrato di essere in Messico o in mezzo a qualche rito sciamanico fuori dal tempo. L’intero paese si bloccava per giorni, i bar prosperavano vendendo cibo così proteico e grasso che i vegani si sarebbero fatti esplodere con una cintura al tofu. Intere botti di bovoletti (sapete cosa sono? Lo yage è nulla in confronto alla massa d’aglio che questi piccoli molluschi devono sopportare post mortem), calamari fritti nell’olio motore, vino rosso da NAS e spuma (assieme, certo), porchette arrostite sotto il sole d’agosto. Non eravamo grassi comunque, sia chiaro. Le giostre – quel macchinoso peyote trasversale – andavano a pieno regime fino alle 5 del mattino, zeppi di ubriachi, buzzurri tout court, neanderthaliani, rissosi per censo e albero genealogico, ragazze discinte e sibili fantascientifici.
Le canzoni etichettavano inequivocabilmente estati e orari del divertimento (mai più sentito un heavy rotation come Ring My Bell, forse solo Non si può morire dentro di Gianni Bella) ma ne ho già parlato sul post de Le Orme (I dischi che piacciono solo a me, credo # 44) e quindi stop me if you think that you’ve heard this one before. Il pop aveva ancora un’aurea salvifica ‘splendida splendente’ in quei giorni. Umberto Tozzi e Alan Sorrenti battagliavano dalle pagine di Tv Sorrisi e Canzoni, Alberto Camerini stava arrivando, i Kraftwerk li vedevamo a Domenica In da Corrado, la luna stava bussando e le Madonne tristi con le dita alzate barcollavano per le vie del paese, un po’ per l’equilibrio instabile al quale erano sottoposte e un po’ per le bestemmie esotiche, i calici di rosso ingurgitati e baffi a manubrio. Ci inventavamo decine di modi per raggranellare qualche soldo: dallo scaricare casse al bar alla vendita abusiva e spavalda di fumetti e giocattoli fuori uso. Spacciavamo ghiaccioli prima che si sciogliessero. I motorini erano motorini e non ornitorinchi di metallo, i negozi chiudevano a mezzanotte mentre le gonne avevano bisettrici e orli improbabili, avvolte da sguardi allupati di instancabili tabagisti con le nocche gialle. Attraversavamo la provinciale zigzagando tra le auto sfidando gravità e fratture, mentre oggi un ragazzetto manco il cancello di casa apre senza essere subissato di raccomandazioni e telecamere.
Gran parte delle canzoni usa e getta sulle quali mi sono edificato provengono da lì, balie inconsapevoli alle quali ho fatto da rispettoso cadetto. 45 giri che gli autoscontri o la bancarella dello zucchero filato mettevano in loop per cinque giorni, gli stessi 45 giri che al mercato – ogni giovedì – un furgoncino riusciva a piazzare, spesso su improbabili versioni tarocche cantate da spavaldi imitatori dai nomi improbabili. Potrei citarvene un intero scaffale, sette pollici dalle copertine sgualcite e i solchi gocciolanti polvere, da Franco Simone a Dee Dee Jackson, da Gerry Rafferty alle Baccara, da Dan-I (Monkey Chop!) ai ‘Lectric Funk. Da Enzo Malepasso a Viola Valentino. Sovente minutaglia, ma che spesso assolveva egregiamente al proprio compito (Baccara escluse), ovvero tre minuti di rinfrescante straniamento, immersione di fantasia pop dalla durata di una Big Babol alla fragola. Disco Bambino, proprio. Eppure è un altro il 45 che incredibilmente è riuscito a condizionarmi come un cane di Pavlov, un 45 giri che cantò una sola estate e – chissà perché – il titolare del Tagadà passava con religiosa frequenza anticipando e vidimando la mia fissa per la dance. Una delle tante band farlocche che durante i gloriosi mesi della post disco (prima che diventasse italo) ebbero qualche nanosecondo di notorietà. Mi sembravano degli alieni i Bagarre, italianissimo progetto celante al proprio interno Marziano Fontana, Roberto Zanaboni (uno che aveva collaborato con Mia Martini e Ivano Fossati e si accingeva ad accompagnare Mina) e un’altra manciata di carbonari quali la misteriosa Ann O’ Rak (vero nome Rosa Maria Avataneo) o un/a fantomatico/a Jo Cleary. Italia come New York, new wave e post disco, rimembranze di Ze Records e un 1982 nel quale tutto – nel pop – poteva ancora accadere.
Presi il futuristico 45 giri da Fusco e ci vollero anni prima che riuscissi a trovare una copia dell’album (Circus, su Sauvage Musique) seppure in condizioni pietose. Quasi inascoltabile ma poco importa dacchè è Lemonsweet il 45 giri che mi segnò da allora e per sempre. Introdotto da una voce svogliata e aliena che cita (ma lo scoprirò in seguito) Frank Zappa e si attorciglia in un loop di asettici ‘fifty four, fifty four, fifty four…’ prima di prendere quota con un groove precipuamente new wave. Ne fui colpito, e la discrepanza tra quelle giostre campagnole, quei coetanei dal pantaloni troppo larghi, quelle risse alcoliche e il suono di un futuro al quale mi pareva di avere accesso furono una detonazione non da poco. L’asettico fraseggio sintetico, la voce robotica, una bassline più adatta a Gary Numan che ad un paesino di provincia mi entusiasmarono oltre misura. Sopporta benissimo ancora oggi la sua costruzione armonica, e sono certo che farebbe un figurone se qualcuno volesse riprenderla in mano per atomizzarla nel dancefloor. Solo i La Bionda di I Wanna Be Your Lover avevano osato tanto, fino a quel momento (appurato che i Krisma giocavano in un altro campionato) e il bello è che ne ero consapevole. L’ascolto di Circus – anni dopo – mi deluse, adagiato com’era in una rassicurante poltiglia italo abbastanza di maniera ma non priva di guizzi fuori dal comune, con una versione di Lemonsweet messa ad inizio disco alla quale erano state eviscerate tutte le asperità che la rendevano grande. E poi Little Ladies ad oscillare tra i Fleetwood Mac, Lene Lovich e un ritornello da indie pop scozzese o Circus Is Gone a giocarsi l’asso della ballata da Discoring. Dirty Love ci riporta al Danceteria con un funk giocoso che ben sarebbe stato in mano agli A Certain Ratio di mezzo. Qui la conturbante noncuranza di Ann O’ Rak si supera nel suo svogliato declamare. No Toys (anche su singolo) è un disperato erotico stomp che anticipa Madonna, Lizzy Mercier Descloux, le Waitresses e le Bananarama degli esordi. New York come se piovesse. Sublime. E ancora For Your Pleasure, dal quale i Freeez prenderanno scrupolosa nota. Svisate di synth e un afflato da hip hop newyorchese con contemporaneo mercimonio di fiati alla James Chance. Ma la vera bomba – che da sola giustificherebbe l’acquisto – è la reprise di Lemonsweet, sei minuti e venti secondi di avanguardia dance. La nostra Blue Monday al cren, la nostra I Feel Love ai sottaceti, la nostra Born Slippy all’amatriciana dove pulsano synth lungo tutti i cursori del mixer, dove il canto si sdoppia in un dub sprezzante, dove le chitarre sembrano prese di peso dagli Ultravox e lasciate volutamente sullo sfondo, dove il 4/4 non cambia mai e proprio per quello rota e garrota come un derviscio prima che la Ann scivoli in un delirio di voci alcoliche. Indispensabile, almeno per chi scrive. Dopo 37 anni Lemonsweet rimane una necessità nascosta della dance italiana, al pari di Zanzibar di Helen (riscopritelo, magari nell’Afro Mix, o datelo in mano a Weatherall) o quel funkone incidentalmente appoggiato sotto l’ugola di Patrizia Pellegrino intitolato Automaticamore. Giostre, vino rosso e pesce fritto ma si faceva la storia.
Circus era e rimane esattamente come quel periodo storico, dove i cocktail in provincia non esistevano ma si faceva necessità virtute mescolando birra e Mistrà; dove l’Amaro Cora e una bottiglia d’anice erano il massimo al quale si poteva aspirare (mai termine fu più consono). La macelleria era il centro di controllo di tutto quel bailamme che – per 5 giorni l’anno – pareva il nostro giorno del ringraziamento. Centro del paese bloccato h24, stoccafissi messi ad asciugare in strada assieme a barili di olive e pentoloni di trippa. Il tagadà mandava un esemplare umano l’anno in ospedale per lesione lombare; gli autoscontri creavano coppie e risse improbabili; il punching ball metteva in risalto muscoli, feromoni e mercanzia assortita mentre il prete (vero Deus Ex Machina della situazione) benediceva tutto e tutti dall’alto, tra un Pater e due fogli da 50.000. Le ragazze le potevi approcciare sotto il baraccone d’alluminio della pesca di beneficenza, territorio neutro al quale i genitori delegavano il virginale candore delle figlie; le chewing gum cominciavano ad essere al gusto di cannella (quel sottile senso dell’esotico che stava per colonizzarci) e i jeans dovevano essere strettamente di marca Ball per non venir espulsi da quell’impeto di energia centripeta. Un anno arrivò anche la ruota panoramica a destabilizzarci; venne eretta di fianco al municipio e dev’essere stato proprio l’anno di Lemonsweet. Ci si dava appuntamento telepatico su qualche scalino della piazza o in qualche remoto angolo di bar a qualsiasi ora, certi di veder passare conoscenti che, negli altri 360 giorni dell’anno, si nascondevano alla nostra vista per i motivi più improbabili. Dalla vergogna allo studio. Non vi erano orari di rientro in quei 5 giorni di esperimento sociologico che pareva coreografato dal Mago Otelma o il colonnello Kurtz. L’anarchia era reale e arrivava con le carovane, i juke box, le MS e le arachidi tostate. Una fatica immane, credetemi. Ma in tutto questo puzzolente miscuglio di consuetudini e fissazioni cripto-medievali i cittadini mai si sarebbero azzardati ad entrare. Allora sì sarebbe stata vera bagarre.
Il tubo non ha una versione decente che sia una, ergo cliccate qui per ascoltare la stupefacente versione del singolo.
https://www.musiqueapproximative.net/post/bagarre-lemonsweet?random=0&fbclid=IwAR3GTYEbLgE01FIrffNf3F_qtjWmNe9jqy7Mx0NwPw_jSVO7KHsH-aAJefA
Michele Benetello