Puressence – Only Forever (Island, 1998)
A me piace la mia città, credo. Un po’ come quei dischi di cui blatero random su queste colonne. Ergo non tantissimo – e con scarso entusiasmo dacchè non la vivo affatto – ma mi piace. Senza l’accento su ‘mia’ non avendone mai avvertito l’appartenenza, apolide di ‘sto cazzo che ha sì radici ma solo dove alberga un buen retiro scevro da frastuoni, gramigna, clan assortiti e soloni. Una bomboniera glassata riempita di madeleine velenose, ecco cos’è. Eppure mi piace nel suo aplomb geografico infestato da erbacce umane; ci cammino agevolmente nelle ore più buie e silenziose del mattino, quelle che ti stringono il muscolo cardiaco in una morsa, massaggiandolo con cura. A me, che sempre caro mi fu quest’ermo core. Ore da Paul Roland, da ventricolari La Dusseldorf, da Flying High a firma Irresistible Force. Da Sarah Records, anche. Cirrocumuli di minuti scevri dal pop più zuccherino, che per quello c’è bisogno di un alba che si dispieghi appieno. Nemmeno una città per cantare – come diceva Ron – ma per fischiettare eccome, anche se mi piace meno chi ne corrode continuamente l’anima, con tutti quei negozi di vestiti e di scarpe che indossa il centro, o l’esercito degli architetti dai gridolini Arcade Fire o retromanie alla Editors mai vissute appieno. Aperiminchie, ‘sotutomi‘, democristi, rockers H&M e incartapecorite anzitempo. Un bel parterre de roi(ti), non c’è che dire; quaterna del disagio snob che non conosce fine. Ma non è tempo di simili discorsi, che poi sembro il matto che urla ‘penitenziagite’ per le vie del paese, quello con più ferite che battaglie (Vecchioni Docet). E sono altresì sicuro che una città così ce l’avete anche voi. Vero che ce l’avete? Una città da selfie, che da qualche tempo è – incidentalmente – pure sommersa di iniziative culturali, eventi, concerti, ecc. Senza troppo sottilizzare (che a caval donato non si guarda in bocca, e questo è tutto grasso che cola) ogni anno che Iddio manda in terra si svolge un gran festival fumettaro. Iniziativa ormai ampiamente consolidata e che richiama in città una marea di persone. Bella manifestazione (credo, non l’ho mai approcciata. Ma si dice così, no?), trasversale e variegata, per quanto io nel campo delle bandes dessinées sia vieppiù ignorante nonché fermo a quella delicata e toccante creazione di Jeff Smith chiamata Bone; letta nella mia implume cameretta sul finir del millennio scorso quando la rete non era nemmeno più quella del materasso e figuriamoci un po’. Ma bellissimo e gentile, un The Queen Is Dead declinato lettering e inchiostro tenue, un Dream Academy al sapor di ciliegia, un Felt damascato. Al cor gentil rempaira sempre amore, e quei fumetti li tengo stretti assai, rimembrandone i tratti quando scopro di cedere un po’ troppo alla tentazione del cinismo e della misantropia. Cosa che – mi pare – stia avvenendo anche ora. Music, Comics and Misanthropy.
Come che sia: qualche anno fa – ignaro e dimentico della carnascialesca kermesse – ho avuto la brillante idea di recarmi in centro per una parca cena. Una cosa veloce, senza attardarmi troppo. Avrei dovuto capire subito che tutte quelle camicie di flanella, barbe, maschere da gatto, spolverini da stragi nei licei americani, Pirati dei Caraibi steampunk, tettorute vittoriane e pantaloni su caviglia scoperta che gironzolavano annoiati sul finir del giorno significavano ‘post post modern man & woman & mocciosum’. Ad strunziam.
Parcheggiavo bisognoso di una Magnesia Bisurata Aromatic e, con la calma serafica che mi contraddistingue, riuscivo (nonostante la ressa) a trovare un tavolo, sebbene incastrato tra una coppia sconsolata e un simposio di artisti under 30 tutto chiacchiere e ravioli al vapore. Già vi vedo oliare la Mauser, ma abbiate pazienza come l’ho avuta io. Letteralmente incastrato su un angolo in una sorta cubo di Rubik della ristorazione. Ahia. Capivo subito (son mica tardo e tordo eh, cioè… lo sono ma non fino a questo punto) che uscire da cotanto impasse – anche geografico – sarebbe stata impresa improba, soprattutto perché la coppia era loquace quanto Andy Luotto nei suoi giorni migliori, mentre l’agglomerato hip hip hurrà cianciava ad un volume da Marshall (non il piano, l’amplificatore). Una doppia coppia che avrei volentieri fritto come dei Wanton, con due femminei ragazzi melliflui e mollicci e le di loro compagne farcite da parlata blesa e tatuaggi alla Leroy Merlin. Fortunatamente non erano agghindati come comparse della saga di Twilight, sarebbe stato troppo per quel cuoricino ino ino che ancora mi alberga addosso. Li immaginavo stringermi la mano tramite arti sudaticci e molli come gli orologi di Dalì mentre la loro epiglottide eruttava erre mosce con la cadenza di un disco dei Fall. Brrr. Molto probabilmente tutta gente che aveva frequentato l’università della vita, come recita il sottotitolo dei loro profili Facebook. Dopo 40 secondi il mio involtino primavera era trasmutato in un uno stormo di nuvole di drago. Di lì un minutaggio interminabile di chiacchiere insulse e dalla consistenza di uno zucchero filato allo stramonio. Non se ne usciva. Non ne uscivo. Non ne sarei fisicamente uscito visto lo spazio rimasto, dovevo quindi ingegnarmi per scovare agevoli vie di fuga e per far trascorrere il tempo che rimaneva prima del conto. Al cambio attuale delle mie mandibole erano circa 7 minuti, ma il ristorante sfiorava il sold out e la cosa mi preoccupava piuttosto ed anzichenò. Avrei potuto snidare dalla testa un disco per Sniffin’ Glucose ad esempio, locus amoenus ove ultimamente latito e la cosa non mi fa onore. Così, giusto per passare il tempo ed escludere dalle mie orecchie il frastuono. Ravanare mnemonicamente i miei file cerebrali riaffiorandone con un ellepi che mi tenesse calmo. Di quelli che conservo gelosamente in quel cuoricino stropicciato del quale disquisivo poc’anzi. Quelli da due lire, proprio come il mio muscolo cardiaco. Insomma, in genere qualcosa di mediocre, che a voi non piace e a me dispiace assai ‘sta cosa. Impresa ardua in quel marasma di bimbi e polli alla piastra. Che forse era meglio il contrario, no? Mi sentivo come un Don Draper incapace di trovare uno slogan per qualche campagna pubblicitaria, conscio altresì d’essere eoni dal suo carisma di maschio alfa, a mia discolpa posso dire che non aiutava certamente quel minuscolo bicchierino di ‘glappa di liso’ invece di una Smirnoff servita da una giunonica Joan in pomposi bicchieri di cristallo purissimo. A volte la vita è ingiusta. Serviva un disco perfetto per il luogo ed il momento invece, e serviva subito prima che la mia intolleranza raggiungesse Alfa Bravo Charlie. Qualcosa che delineasse e delimitasse perfettamente lo iato – sociologico e anagrafico – tra me e quei casi umani che (probabilmente) un domani sarebbero andati a dirigere qualche ditta di papi o ufficio pubblico. Avrei voluto sganciar loro un Enola Gay di Tavernello. Ansia. Gli Half Man Half Biscuit? No, ne avevo già scritto per un fanzine sul calcio inglese. Gli Under Neath What? No, ne avevano già scritto altri. I Bomb Disneyland? Macchè. Poi – appunto, visto che c’ero finito in mezzo mio malgrado – ho pensato ai fumetti, ad un passato nebuloso e infine a Bone e al suo musetto, cambiando radicalmente atteggiamento. Sbirciavo le donne nude sul fondo del bicchiere, rigirandolo tra le mani lungo angolazioni impossibili per scoprire nuove prospettive, finché – tra un acerbo seno e l’altro – ho visto la luce. Sagomata dalle rifrazioni dei vetri smerigliati di quel dozzinale ristorante cinese, Chinatown dell’anima che si affaccia su una rotonda e grumi di nuvole pronte a minacciare pioggia, in un imbrunire da tardo settembre. Tutto improvvisamente si rivelava in quel Matrix di suoni, e quel panorama alla Blade Runner di campagna mi portava in visione una copertina di un disco che avevo amato assai; amato di un amore incondizionato, quello che arde e si spegne lasciandoti spossato a terra prima di un frettoloso addio: Only Forever dei Puressence. I Puressence, già. Dei Radiohead sorpresi a non toccarsi il pisello. La versione dei Whipping Boy spiegata agli idioti che si stavano lanciando dal pontile del brit pop. Idioti come me, pervicacemente abbarbicato ai Rialto. Ne feci scorpacciata durante una lunga e complicata estate londinese, sfogliando i petali di una margherita avvizzita ornata da profondi sospiri. Ma non è questo il punto. Il punto era quella tavolozza di colori oscuri che si raggrumavano sulle vetrate lanciando strali appuntiti dentro la mia cassa toracica. E non ricordo dischi (almeno quelli che giocano nei campionati minori, quelli dell’entusiasmo e sudore, quelli con poco pubblico sugli spalti) che possa vantare un trittico d’apertura così mirabolante come Sharpen Up the Knives, This Feeling e It Doesn’t Matter Anymore. No, non lo ricordo. Persino le tette sul fondo del bicchiere tendevano a sparire nel rimembrare la bisettrice basso/batteria piena di aria satura che introduce la rasoiata d’inizio. ‘Ogni giorno mi siedo in casa e affilo i coltelli‘, canta con malcelata noncuranza James Mudriczki. Era cosa buona e giusta, e quei quattro abbondanti minuti di art rock inglese, equidistanti dai Gene di mezzo come appunto dai Radiohead meno anodici e inclini all’ossidazione, riuscivano a gassarti l’anima da subito con dei crescendo orgasmici di ritmi saturi contrapposti ad una voce cristallina adagiata su una capacità pop davvero superba. Ne cassavano una naturale uscita su singolo e il cosmo ancora si chiede perché. Riesce a far quasi di meglio This Feeling ovvero l’età dell’innocenza sul declinar del millennio e io non saprei spiegarvela senza tirare in ballo le solite ecumeniche menate riguardo pennate acustiche, rispettosa scrittura, chitarre arrabbiate o grigi casermoni di Manchester, da dove provenivano. Ma Joy Division Goes Coldplay potrebbe essere un indizio. Mettetevela sotto il cuscino e domattina mi dite. Traina il disco ad un rispettosissimo numero 36 in classifica e ottiene spazi un po’ ovunque, da MTV a Radio 1. Ma, ci credereste? It Doesn’t Matter Anymore riesce nondimeno a far di meglio (scrivo ‘nondimeno’ solo per indispettire il Turra Giancarlo), abbecedario di art rock inglese agghindato impeccabilmente su un ritornello basico ma essenziale. E ancora le magie notturne di Street Lights dove si avverte aria di pioggia o la commovente epica di Standing in Your Shadows che comincia ambient e finisce High & Dry; l’irresistibile sipario da brughiera della citata All I Want, un po’ Geneva e un po’ no; la speme e lo spleen simil country di Behind the Man; i Gene (rieccoli) in ginocchio di Never Be the Same Again o Past Believing. Addirittura nostalgiche sembianze Chameleon a ribollire in Hey Hey I’m Down. Tutto è umbratile e autunnale in questo catalogo di sentimenti altalenanti ed è inutile che stia a illustrarvi un manufatto che per sua natura scorre identico tra flutti di accorato art rock inglese. Ma due paroline su Turn the Lights Out When I Die e Gazing Down mi premerebbe spenderle. Anzi no, non vorrei rovinare il momento in cui arriverete al loro cospetto. Un disco per tutti Only Forever, e che – proprio per questo – non tutti riuscirono a far proprio, disorientati dalla sua sublime indecisione.
Un disco agli antipodi da quell’accozzaglia petulante che non accennava a smettere di urlare o dimenarsi, urtando continuamente la mia sedia. Un disco che ferisce e rimane impresso dentro, a scarificare e scarnificare le emozioni. Mi chiedevo come facesse – quella coppia sconsolata che ci alitava addosso in religioso silenzio – ad affrontare la cena e la vita senza conoscere i Puressence.
Con questi pensieri, il desiderio di correre a casa per riascoltarlo in religioso silenzio e la consapevolezza che Only Forever non lasciasse spazio a null’altro che non fosse amore io, comunque, un sassolino dalla scarpa dovevo togliermelo, sempre che riuscissi a districarmi da quel ginepraio tramite dignitosissima acrobazia affrontata nel ristrettissimo pertugio lasciato tra le due sedie. Zero. Nemmeno un apnea da Mayol sarebbe riuscita a farmi passare. Che fare dunque se non chiedere comprensibilmente ‘permesso’ senza tuttavia ricevere risposta? La coppia era immersa in una chat e The Artists Formerly Knows As Stronzi iteravano l’urlacchiamento coatto in preda a risolini isterici. ‘Scusate’. Niente. ‘Scusate’. Idem. Li avrei annegati nel bitume caldo corretto da piscio di alligatore. Baileys, praticamente. ‘Erm… PERMESSO’. Niet. Avrei dovuto sì scegliere i Bomb Disneyland, ostia. Serviva un segnale forte, un colpo di bacino che manco Elvis e un esortazione al nostro signore iddio dal congruo volume e declinato pedigrèe affinché tutte le ruote del firmamento improvvisamente cominciassero a girare per il verso giusto. Isacco Newton annuiva dall’alto dei cieli e Sharpen Up the Knives (appunto) rimbombava nel periplo della mia scatola cranica. Cominciavo davvero a sentirmi Don Draper. La bionda alzava la testa dal Samsung smarrita e confusa, l’artista abbarbicato alla sua poltroncina mi guardava con aria stranita mentre gli sciocchi scacchi della sua camicetta Milano Fashion Week cambiavano improvvisamente colore, adattandosi al tramonto petrolifero. Gli altri non pervenuti.
Come Mosè davanti alle acque le due sedie hanno iniziato a creare un varco nel quale avrebbe potuto passarci l’Ave Ninchi dei tempi migliori. Intendiamoci, non sono un rissoso, non è nella mia natura, anzi tendo ad essere un diplomatico sulle questioni spinose, ed è sempre sacrosanto porgere l’altra ‘anca’, soprattutto se coadiuvata da un’ernia lombare, ma a mali estremi estremi rimedi. E questo era un estremo rimedio. Sta di fatto che il boscaiolo trendy ha avuto la brillante idea pure di risentirsi e – mentre il mio ‘cane cane ane ane ne e e’ riecheggiava ancora per l’aere come un mantra alla Kula Shaker mi ha guardato di sghimbescio. Ullallà ragazzo, Sharpen Up the Knives anche tu? Così, siccome melius abundare quam deficere gliene ho sparato un altro. Un remix, una extended version blasfema. Uscendo mi sono acceso una sigaretta con un’aria da sgualcito Corto Maltese. Bone mi avrebbe perdonato.
Michele Benetello