Butterfly Child – The Honeymoon Suite (Dedicated, 1995)
Il casello dell’autostrada chiamava come una sirena annoiata, la fila di Tir zigzaganti in una sorta di gara a chi ce l’avesse più lungo (il rimorchio) non invogliava il sorpasso sebbene fremessi per lasciarmeli alle spalle in una sorta di illusoria supremazia sociale, ultimo rifugio degli stronzi. È che quel capodanno di metà anni novanta stava tirando le cuoia: sul nulla. Non avrebbero nemmeno dovuto esserci i Tir in quella fredda serata che si preparava a festeggiare su nubi cupe e divertimenti immersi nell’azoto liquido. Ma nemmeno io avrei dovuto effettuare quella delinquenziale inversione a U solo per approcciare un autogrill visto all’ultimo minuto. Avevo terminato le sigarette e una rabbia famelica stava montando come schiuma di estintore. Non dicevamo una parola. ‘Nè una sola’. Manco una. Era per quello che la radio si attorcigliava sotto i miei polpastrelli in uno zapping sciocco e querulo dove spezzoni di Last Christmas, risate isteriche e ciance di nullo conto si sovrapponevano creando un bolo di silenzio. Segnale Morse afono ma almeno non ci costringeva a parlare. Li avrei ammazzati quegli speaker sbrodolanti, pagati per diffondere divertimenti di seconda mano alle 23,30 di un 31 dicembre del cazzo. Avevo bisogno di trovare qualcosa che fosse più in linea con il momento, con quell’impasse che stavamo vivendo, con tutto il disagio emotivo che immaginavo a seguire. Usavo le cassette come oggi si usano gli emoticon, qualcosa di immediato che servisse per segnalare, perimetrare, disporre, chiamare. Chiudere anche. Terminare. Rovistai con la mano destra sotto il sedile posteriore, dove si appisolava – nascosto – il portacassette, piccolo scrigno che non mi abbandonava mai e al quale iniettavo sempre nuova linfa vitale. Le parole rimanevano ferme lì, bloccate sull’uscio di un ugola arsa.
Magari oltre alle sigarette avrei potuto farmi una Sambuca, pensai. Visto che non vi era stato alcun cenone di prammatica, che quella serata si era ingarbugliata su una noia rabbiosa e parvenze di futuro non si profilavano al’orizzonte una Sambuca sembrava l’antibiotico più adatto. Del resto è Capodanno, chi vuoi che ci sia in giro, oltre a quei bestioni di metallo su ruote o qualche disperato come noi? In cuor nostro sapevamo che non si poteva andare ancora avanti tanto in quelle condizioni. Sembravamo malati. Malati ma incapaci di staccare la spina. Guardavo i Tir con la consapevolezza che i loro ritorni a casa, affrettati e forse a loro modo felici, non avevano nulla in comune con la mia serata senza manco una lenticchia o un prosit. Li immaginavo sulla strada per quell’Est Europa che ancora non ci aveva azzannato le terga con la sua disperazione. Ci sembrava così lontana, dietro una cortina di ferro immaginaria che era caduta sì, ma non nelle nostre convinzioni.
Gente in maniche corte nonostante il freddo polare, gente con dei nomi quasi esoterici. Pjotr, Sergej, Petar, Augustin. Gente con i sandali e la bottiglia di vodka celata dietro il cassone del camion, tra due coperte e una rivista porno a pensare per quanti figli avesse ancora spazio la propria casa. O a lavarsi le ascelle con l’acqua gelida nei bagni di qualche posto di ristoro, salutando con un sorriso spento e gli occhi piccoli, iniettati di sangue e lampioni spenti. Vita immonda certo, ma sovente migliore della mia, che era impiantata da qualche parte e aveva bisogno di un’inversione a U, proprio come quella che avevo effettuato poco prima. Li osservavo parcheggiare negli ampi spiazzi, sperando avessero tutti qualche Ivanka o Anuta ad attenderli, una volta passati quei maledetti confini. Li fantasticavo alzare i bicchieri con la famiglia, tra un dolce fatto in casa con amore e maestria, una chiesa ortodossa, delle noci, fumo stagnante, la foto di Lenin o Tito e una congrua riserva di slivovitz da dividere con i parenti fino al quarto grado. Mi accontentavo delle Multifilter, io. E di girare in tondo, attendendo che quel benedetto scoccare di campane suonasse, per poter vidimare l’ultimo giorno dell’anno freddo come un Natale in casa Malavoglia. Quelli avevano una casa, lontana ma ce l’avevano. Io mi sentivo apolide e oltremodo insofferente. Inchiodato in un’interzona del cuore.
Scesi, acquistai due pacchetti di sigarette e all’ultimo secondo ordinai un caffè invece della sambuca, controllando con noncurante indifferenza tutti i Sergej riuniti davanti ad un bicchiere di qualcosa che – presumibilmente – era liquore alla prugna. Auguri, auguri. Pozdrav. Buon anno. Sťastný nový rok! Si salutavano tutti con una finta indifferenza, maledetti dalle occhiate dei commessi, infastiditi da quell’allegria che si accontentava di nulla, allontanandoli dal loro ritorno a casa. ‘Lo sanno tutti che in caso di pericolo si salva solo chi sa volare bene’ dirà Tiziano Ferro dopo qualche anno con una lungimiranza senza pari. Io ero impiantato a terra invece, e se ci ripenso mi si inchiodano le arterie sul guard rail. Mai passato un capodanno così di merda, a fare inversioni sulle triple corsie di un’autostrada, invidiando camionisti georgiani o del distretto di Blagoevgrad.
Tornai in auto da solo, non aveva nemmeno voluto scendere. Scorsi un viso da inquisizione e sedie elettriche, la solita irremovibile mancanza di favella. What the hell I’m doing here?
Accesi l’auto, la radio squittì quella merda di Walking On Sunshine di Katrina And The Waves che già trovavo irritante al momento della sua porca venuta e da allora e per sempre vidimerà il male. Volevo vomitare bile violacea. L’avrei preso a pugni quel frontalino così radioso nell’eruttare note. Aumentai il riscaldamento al massimo e – con il portacassette sulle ginocchia – estrassi ciò che speravo facesse al caso mio. Ci volle del tempo, tempo sottratto all’indifferenza di colei che stava scaldando con il suo regale culo il sedile del passeggero. Sembrava volessi attendere la mezzanotte nell’indecisione, ma non era così. No, non era così, semplicemente dovevo guadagnare tempo.
C’era un po’ di tutto dentro quel cubo di plastica, pezzi di esistenze che si potevano plasmare alla bisogna, giusto per raddrizzare le pieghe del cuore qualora avessero preso angolazioni di disagevole equilibrio. Ne guardai gli scomparti finemente colorati dalla lunga fila di nastri, esitando quella manciata di secondi in più che servirono a farla sbottare. Cartellino giallo per accentuata melina. Non potevo sprecare un un album e una C90, in quelle condizioni, così richiusi con cautela lo scrigno in segno di resa, avventurandomi verso casa. Non avevo voglia né di fingere allegria né di affrontare altre ore con quel Golgota addosso.
Ci salutammo sul cancello di casa con una rassegnazione d’altri tempi mentre tutt’attorno esplodevano fuochi d’artificio di campagna, colorando un orizzonte inutile. Auguri sì. Auguri anche a te. Buon anno. Poi me ne tornai verso la magione, sollevato e desideroso di portare a termine l’ascolto interrotto. Non vi era manco un pub nel catarro dove abitavo al tempo, e anche ci fosse stato ne immaginavo florilegio di ‘meu amigo Charlie Brown’, l’ultima cosa in vita di cui avevo bisogno: una spensieratezza inoculata a forza. Al buio della camera le tensioni parvero quietarsi, guidato dalle tenui luci della piastra Teac mi sentivo equidistante da qualsiasi equilibrio. Infine mi decisi: c’era un nastro arrivato in casa da qualche tempo, gentile omaggio della Dedicated in guisa di promo, genuflesso sulla mia pigrizia. Cosa saggia unire l’utile al dilettevole quando si è in un impasse mortale.
Mi erano piaciuti assai i primi passi di Joe Cassidy, umbratile cantore nordirlandese fattosi le ossa con un paio di pregevoli singoli su quella H.ark! Records di proprietà – come si può evincere dall’attinenza semantica – degli AR Kane. Dream pop terso e shoegaze oceanico, materie che non rientravano tra le mie preferenze ma con lui trovavano nuove prospettive e allora – diomio! – che The Honeymoon Suite fosse davvero la prima nuvola di suono sui cieli di quel 1996. Dal pulsare del mio materasso pensavo a quella faccia schifata mentre in lontananza gli ultimi rimasugli di fuoco esplodevano di gioia altrui. Io mi rintanavo tra i rintocchi di Mother Have Mercy invece, distillato di liquida iridescenza ambient ricamata su una parvenza di canzone pulsante di post rock. Pensavo a Joe Cassidy come un Van Morrison intento a contrastare il brit pop sventolando Astral Week. Vi sono dischi che vanno combattuti sul fondo di un bicchiere, slacciandosi la cravatta e offrendo loro il petto, immolandosi. The Honeymoon Suite è uno di quelli, e se solo una volta avete sentito puzza di bruciato provenire dal vostro cuore allora significa che l’incendio era già stato domato e che questo disco fa per voi. Per voi e le vostre braci febbricitanti che necessitano di carburante per una sprintosa ripartenza. Ne inspirai le sagome armoniche tutta la notte, giusto per vantarmi con gli amici di aver fatto le ore piccole anche io. Lasciai che i dieci brani gocciolassero in quel capodanno scudisciato di viltà. Passion Is The Only Fruit si irradiò nel silenzio con l’inclinazione di una canzone suonata per strada, l’urgenza di Cassidy colava prepotente da ogni anfratto in una fragile melanconia simil jazz, i chiaroscuri della mia camera annuivano e io proseguii con la calma del giusto.
Ghost In Your Shoulder danza in un mondo migliore come dei Dream Academy ai quali han tolto la neve di dosso. Esattamente ciò che serviva perché il sangue riprendesse a scorrere nelle vene e il cuore a pomparne velocità consona. All’arrivo di Flaming Burlesque le lacrime evaporavano lungo la via delle ore notturne. Quasi un anticipo cum grano salis di Coldplay o un angolo caldo tra i Cure di Disintegration e gli Oasis, con una tazza fumante stretta tra le mani. Cassidy unisce tutto con la sua liturgia per labbra secche, chiesa alla quale tutti ci siamo prostrati, perché per provare di avere un cuore bisogna che qualcuno venga a saccheggiarlo. Ladro che va ringraziato per averci adornato di stimmate, indossate a monito e futura memoria. Una collezione incisa sul corpo e buona per tutte le stagioni. Unwashed, Uncool si corica Boy from Ipanema per risvegliarsi Ghost In The Machine. Carolina And The Be Bop Revue bussa alla porta innevata dei Low, post rock pastorale che abbiamo abbandonato in fretta e furia, cozzando contro un mondo dove i petti sono puri e la musica guarisce.
Erano pensieri da convinzioni aliene quelli che sgorgavano alle prime luci del nuovo anno, disteso su quel materasso troppo duro, assaporando già la solitudine dei numeri primi. La mia relazione era finita lì, su quei sei minuti dove Astral Week e i Beatles si univano in un immaginario abbraccio gorgogliante ambient. Le fantasie erano finite, le speranze pure. Quella notte inspirai tutta l’aria che avevo a disposizione, acquisii coraggio e mi costruii una parvenza di scorza per affrontare i cambiamenti e il tenue mondo di Joe Cassidy, il mio Cindytalk degli anni novanta. Lasciai che fossero Deep South e i suoi rumori felpati, o la toccante Louis As Anna con il suo chill out da brughiera a farmi da guida. Da allora e per sempre. Se c’è un disco che sintetizza la perdita allora è The Honeymoon Suite, dove – a dispetto del titolo – l’abbandono assume la forma del probo. Le cose si chiudono prima che la porta sbatta con fragore. Ero pronto ad attendere, ci vuol più coraggio a prendersi la pallottola in corpo che a spararla. Mi rivolsi a Six Urchins e Botany Bay per farmi quel guscio, consapevole che grazie a quelle tenui armonie – sempre in bilico tra acustico ed elettrificato, tra un Prefab Sprout e un Costello vestito d’orchestre – avrei saputo acconsentire ai bivi altrui anche grazie alle canzoni. Soprattutto grazie alle canzoni, compagne fedeli che sanno declinarsi ovunque, persino sull’immaginaria crasi rurale tra Champagne Supernova e Kevin Rowland di Towns Come Tumblin’.
I Shall Hear In Heaven liturgica e rifinita d’archi pareva la messa di suffragio ad un amore sotto accanimento terapeutico; colsi la metafora, attendendo che chiudesse l’album in maniera perfetta, indicando la strada a come avremmo dovuto fare. Ho sempre avuto tutto il tempo del mondo per Joe Cassidy, la sua farfalla di rugiada e The Honeymoon Suite; l’avevo allora e lo conservo oggi che il mio futuro ha la parvenza di una candela che brucia da entrambe le estremità. Quella donna per dieci anni non l’ho più rivista, The Honemymoon Suite invece è ancora qui con me. Per sempre.
Michele Benetello