A volte, senza un particolare motivo apparente, una persona diventa un simbolo. Un’icona, o più semplicemente quel segnalibro che infili a bloccare le pagine più importanti della tua vita.
Spesso, succede quando quella persona viene a mancare, banale gioco del riflettere sulla propria caducità.
Sempre, accade che quel fermaporte dell’anima non sia nemmeno veramente qualcuno – chi può mai definire cos’è qualcuno? – ma un’idea riflessa dallo specchio della propria immaginazione. La forma che i nostri occhi hanno disegnato attorno a un nome, una data di nascita, una professione,
dei pensieri, delle attitudini. Alcune persone le conosci, passi del tempo con loro e ne fai un riassunto, un surrogato che puoi raccontare e tramandare. Altre, che producono arte, diventano ciò che hanno scritto, dipinto, suonato e il conoscerle o no non sposta la sensazione di averci avuto a che fare, di aver condiviso qualcosa.
Ho conosciuto Raffaele Sicuranza, alias Rufus, Raffo, Uesbles e tanti altri nomi partoriti sotto il campanile di San Martino, alla fine degli anni ’90 dello scorso secolo. Era uno dei balordi che, come me, tiravan tardi all’Orsa. Stava in un gruppetto casuale, mai omogeneo, di solitari che si incrociavano – sempre gli stessi quattro o cinque – tutt’al più per insultarsi a vicenda e rivangare
vecchi rancori e storie da un mondo ormai scomparso di bische, politica, pistole nascoste, scommesse truccate. Si giravano attorno respingendosi l’un l’altro in una danza grottesca di posture anacronistiche, parlate da film in bianco e nero, rivendicazioni di chi si è perso gli ultimi trent’anni.
Lui non parlava. Beveva, barba e capelli un tutt’uno a nascondere il viso da cui
spuntavano pochi denti e due occhi azzurri e luminosi come quelli di un ventenne disperato, rinchiuso nel folto di quella pelliccia. Non parlava. Batteva la mano sul bancone alla fine di lunghi discorsi silenziosi con se stesso, finché l’oste, all’ennesimo richiamo inascoltato e all’ennesimo colpo sul bancone, lo mandava affanculo e lo spediva a casa. Non sapevo avesse una voce. Lo
scoprii una sera dei primi duemila. Avevo poco più di vent’anni, ero da pochissimo socio dell’Osteria dell’Orsa e quella sera avrei chiuso per la prima volta da solo. Un po’ di preoccupazione e tanta emozione: bisognava farsi rispettare dai clienti più difficili.
Quella sera Raffaele era stanziale al bancone. Naturalmente, doveva rovinarmi la serata e la rovina assunse le fattezze di una lite fra lui e il barista dell’allora fatiscente Contavalli, a pochi metri da noi. Il perché non lo sa nessuno, nemmeno loro due, immagino. Il perché è sempre un sacco di bicchieri di troppo e la rabbia per una vita andata nel verso sbagliato. Fatto sta che, proprio mentre sto orgogliosamente coordinando le operazioni di chiusura, entra un cliente dicendo che un signore sta spingendo un bidone del rusco – spazzatura per i non emiliani – in mezzo a via Mentana. Esco.
Rufus stava trascinando un cassonetto, al tempo erano posizionati di fronte alla farmacia, fra l’Orsa e il Contavalli, verso la vetrata del bar che dava sulla strada. Mollo tutto, corro in via Mentana e l’acchiappo. Comincia una comica degna di Stanlio e Ollio: io che prendo il cassonetto e lo metto via, Rufus che ne prende un altro. Io che prendo Rufus, lui che scappa. Il tutto con il
banco dell’Orsa scoperto e una confusione totale attorno. Scopro, mentre placco Raffaele l’ennesima volta, mettendolo faccia al muro contro le serrande della farmacia e bloccandolo con un braccio torto dietro la schiena, che qualcuno ha chiamato la polizia: il nostro era già entrato
precedentemente al Contavalli per sfasciare una vetrinetta e minacciare i clienti al bancone.

Arriva la volante. Io sto tenendo l’allora semi sconosciuto Raffaele fermo. Lui, vista la pattuglia, come un toro a cui sventoli un fazzoletto rosso in faccia, comincia a dimenarsi e gridare di tutto ai poliziotti.
Uno dei due, il genio della cumpa, scende dalla macchina con un “scusi, come ha detto?” a cui rispondo io con “o mi date una mano levandovi dalle palle e mi fate risolvere il problema, o ve lo mollo e lo portate via perché io devo chiudere il locale”. Starsky e Hutch risalgono sulla gazzella e
se ne vanno. Io strattono il nostro fin dentro l’Orsa e riesco a chiudere.
È notte. Siamo dentro in tre: io, Raffaele e Gianni. Gianni, detto Giannino lo spazzino, amico mio e di Raffaele e sempre nei guai per il troppo amore per l’anarchia, il vino e i derivati del papavero. È l’unica persona che conosco fuori dagli ambienti universitari che abbia letto Cioran: io sto scrivendo proprio in quei mesi la mia tesi, poi libro, sul filosofo rumeno. Sono i primi 2000, in Italia nessuno ne parla e ci sono poche sue opere tradotte per Adelphi. Beh, quelle lui le ha lette. Lui sì, l’ordinario di filosofia morale con cui dovrei dare la tesi no. Mi dovrò laureare fuori facoltà a Storia, per trovare il grande Barnaba Maj che sarà il mio relatore. Giannino, spazzino perso nel caos del mondo, aveva letto, fra le altre cose, Cioran: bizzarre cronache dall’inizio del millennio nuovo, pienamente immerso ancora nella fine del secolo vecchio. È notte fonda, al tempo si chiudeva tardi in via Mentana.
Raffaele deve tornare a Lovoleto, per me un posto alla fine del mondo, e non sa come fare. Gianni, che fa fatica a stare assieme, si offre di accompagnarlo: il piano consiste in andare a casa sua senza svegliare l’anziana madre, prendere patente e macchina per tornare in centro e portare Rufus nel
paesino dove dorme in un casolare che sta ristrutturando. Mi sembra di leggere i sottotitoli mentre parla. Dicono “ma che cazzo t’inventi? Non arrivi neanche dopo il ponte di Stalingrado con la ciocca che hai addosso. Come minimo vi arrestano entrambi”. E, insomma, il mio esordio all’Orsa si conclude con Rufus messo a dormire nel dehor dell’osteria e Giannino caricato in moto
e portato a casa della mamma. Torno da me che è praticamente mattina e con la sensazione di una partenza non proprio promettente.
O, forse, bellissima.
Dario Parisini, invece, non l’ho mai conosciuto. Forse ci siamo incrociati fra palchi, locali e backstage e diverse conoscenze in comune, ma non credo di averci mai scambiato una parola. Nel 2018 volevo andare a vedere Dish-Is-Nein al Locomotiv, ma un guaio dell’ultim’ora mi aveva fatto saltare il concerto a cui tenevo molto: non avevo mai visto Disciplinatha, uno dei gruppi che su di
me aveva avuto un potere incredibile di attrazione e repulsione. La loro musica pazzesca, la provocazione artistica punk portata al massimo in Italia, si scontrava in me con l’odio senza se e senza ma per i riferimenti destroidi. Capivo e amavo la faccia tosta dell’operazione, la genialità della creazione, ma poi, quando vedevo quelle scritte, quelle citazioni, mi si ribaltava lo stomaco.
In pratica, i DIsciplinatha avevano vinto e io avevo perso: loro erano i provocatori e io non riuscivo a non cadere nella provocazione. Loro erano liberi, io chiuso in una parrocchia. Splendidi. Non li ho mai visti suonare, non ho mai visto Dario sul palco e non riesco a non rimpiangere quello che mi
sono perso. Non ho visto loro, ho intravisto i CSI ma non ho visto i CCCP.
Ho visto poco di quello che mi ha formato, ma credo sia una strada comune a chi è nato e cresciuto a fine Settanta in un paesino lontano da tutto.
Con Rufus, dopo quella notte, diventammo amici. Lui continuava a venire all’Orsa, io continuavo a cacciarlo quando esagerava. Lui continuava a non parlare. Poi, una mattina, arrivo presto ad aprire il locale e ci trovo Franco, patriarca dell’osteria e con lui Raffo seduto a un tavolo, la mano fasciata
e l’aspetto di chi è stato investito da un tir. Il tir erano due carabinieri di Lovoleto che avevano deciso di dargli una lezione dopo che lui aveva rotto le palle nel bar del paese. Lezione presa. Lo mandiamo a dormire di sotto, sul palchetto dove fino a pochi anni prima si suonava tutte le settimane. Riposati, poi vediamo. La giacca che gli avevo regalato, tutta rotta. Ricordo quel particolare, legato all’odio per gli sbirri che ho sempre avuto e che quel fattaccio aveva ben riattizzato.
Nel frattempo, la notizia circola, il padrone della casa in cui dormiva e lavorava gli dà il ben servito. Raffo è per strada, anzi, all’Orsa: si piazza a vivere in osteria. Almeno può dormire al sicuro, c’è da mangiare, c’è il bagno e non ci sono sbirri a menarlo. Da lì, passan vent’anni in un lampo. Dal palco al piano sotto, al magazzino a un appartamento; dal dare una mano a scaricare le
casse dell’acqua, all’essere assunto come magazziniere.
Dal mutismo al chiacchierare con tutti, conoscere i vicini, farsi voler bene da tanti, odiare da altrettanti è un passo unico.
Raffaele se n’è andato dopo aver rotto i coglioni a un sacco di persone, aver trattato male un sacco di persone. Non è stato uno bravo, come vorrebbero i borghesi; tantomeno un redento, come vorrebbero i baciapile. Ha frequentato tutte le bische di Andrea Costa, si è giocato la vita ai cavalli, ha sfanculato lavori e persone, ha maltrattato altri come lui. Esattamente come si fa per strada.
Niente storielle edulcorate da libro Cuore, niente lieto fine. Ha vissuto quello era e da dove veniva: dalla strada. Dall’Irpinia dei primi Settanta alla Bologna del piccolo malaffare. È stato uno stronzo con alcuni, un amicone con altri. Io, personalmente, penso che gli avrei dato in mano tutti i miei averi senza battere ciglio, sapendo di ritrovarli il giorno dopo. Mi sono fidato di lui come di pochi altri. E so di aver avuto ragione, la mia ragione, che non cozza con quella di chi non lo vuol neanche sentir nominare, perché da lui è sempre stato maltrattato. Contraddizioni. Una vita non lineare. Legge della strada, non un bel posto, non bella gente.
I Disciplinatha, intanto, vengono riscoperti come un po’ tutta la scena punk e underground fine Settanta/inizio Ottanta oggi tanto di moda. Io continuo ad ascoltarli come li ascoltavo allora, con un misto di goduria e ammirazione, sempre sul filo dell’incomprensione. E per questo, penso che siano stati enormi. Mi dispiace non aver conosciuto Dario. Forse ci saremmo piaciuti, forse ci saremmo mandati malamente affanculo dopo cinque minuti. Mi dispiace, soprattutto, non averlo visto dove era nato per stare: sul palco, con il suo gruppo, una delle epifanie della storia musicale
italiana. Uno su cui si scrive e si scriverà, che si ascolta, ispira e ispirerà chi ancora crede che la musica non sia intrattenimento ma vita e, quindi, contraddizione, provocazione, rabbia, disagio e gioia, innocenza e coraggio. Arte e non artigianato, grandi storie potenti e non solo camerette e
solitudine.
La voglia di esplorare ed esplodere, di brillare su un palco per raccontare la propria urgenza, la propria visione del mondo.
Me ne sono andato da Bologna sei mesi fa. Il tempo che serve perché tutto cominci a “storicizzarsi”, ad appartenere al passato e, quindi, a poter essere osservato con un po’ di distanza.
Non mi manca, questa è la verità. Non mi manca, perché Bologna è ancora una bellissima città, se hai la fortuna di arrivarci e di non averci vissuto, come me, dalla fine degli anni Novanta.
Non mi mancano le vie che sono un susseguirsi senza pause né diversità, senza qualità né unicità, di tavolini per mangiare e bere in fretta e a poco. Non mi manca il traffico umano da città Ryanair, trasformata dalla politica locale in mangiatoia per turisti. Non mi manca la proposta culturale sempre e solo dedicata agli universitari, scevra ormai di ricerca e sperimentazione. Non mi manca la fila di cretinetti davanti alla finestrella di via Piella, per instagrammare un canale. Non mi manca il caos ovunque della città dei balocchi che non critica niente, non mette nulla in discussione. Ma
non è colpa di Bologna. Non solo, almeno.
È così che va il mondo e, anzi, Bologna ha una parte che resiste: ha un’anima, una coscienza sociale. Sempre retorica, sempre la stessa catechistica, ma meglio del nulla di tanti altri posti. Ma io ci ho vissuto in quella che pare un’altra epoca. Quella analogica, della contraddizione, dello scontro, della messa in discussione costante dei dogmi.
Dell’avanguardia, dei Massimo Volume e compagnia, delle gallerie d’arte e delle case occupate, delle pubblicazioni CyberPunk e del L.I.N.K. di Fioravanti; di un tempo che non era migliore e non perché io ero giovane, ma era, voleva essere, voleva esistere. Non passava di là per caso, leggero e vacuo come ogni cosa oggi: un minuto, un clic, un consumo. Non una storia, non un percorso, non uno scontro. Tutti pacificati, dalla stessa parte con le bandiere dell’Ucraina fino al prossimo vessillo da portare in piazza senza sapere perché. L’importante è il qui e ora. Nessun passato, nessun orizzonte.
In questo mondo, i Raffaele Sicuranza non troverebbero un’Orsa a cui aggrapparsi. In questo mondo, musicisti che vogliono qualcosa di dirompente, come Dario Parisini, non credo troverebbero lo spazio per nascere, pubblicare dischi e suonare, crescere, cambiare, andarsene.
In questo mondo che promette meraviglie, dall’economia green all’inclusività, dalle auto elettriche che si guidano da sole alla sostenibilità e intanto ci regala anni da incubo di pandemie, guerre in Europa, governi che spendono per riarmarsi, borse che crollano, fiumi in secca – il Po è talmente basso che le sue acque si stanno salando, perché il mare penetra dalla foce –, temperature che
aumentano e uno strisciante, invadente, senso di instabilità che porta a non ascoltare più la diversità, ma a cercare l’uniformità; in un mondo sempre più spaventoso, in cui le nuove generazioni perdono vocabolario e, quindi, capacità di pensiero allo stesso ritmo con cui io perdo fiducia; in questo mondo che forse diventerà bellissimo per mano di giovani con idee così nuove da esser del tutto aliene alla mia possibilità di pensiero, io oggi ricordo un amico che mi mancherà e un grande artista che mi mancherà.
Saranno due mancanze del tutto diverse, eppure legate.
Legate dall’esser divenute simbolo della scomparsa di un mondo, della mia giovinezza certamente, ma non solo. Di quel mondo in cui il confronto, la differenza, lo scontro, la contraddizione erano parte integrante, erano norma. In cui andare contro era ancora possibile. Oggi saluto due ribelli,
che nulla avevano a che fare tra di loro, ma che io ho messo assieme e non so neanche bene perché, in questo che è diventato da sé un desolato saluto a un pezzo di vita e alla città che lo ha segnato.
Ciao Rufus, ciao Dario e ciao a quella Bologna.
So che non vi ritroverò che nei sogni, ma che lì sarete sempre presenti. Che la terra vi sia lieve.
Fabio Rodda