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The Vaselines

30 – 21

30) Wedding Present – George Best (1987)

C’è stato un momento al Primavera Sound Festival dell’anno scorso, a pochi minuti dall’attesissima esibizione dei Blur, nel quale l’aria si è riempita di note familiari e l’occhio ha scovato, non senza fatica, un manipolo di musicisti su un palchetto laterale di fortuna…esatto erano i Wedding Present che dopo tre canzoni hanno lasciato la ribalta ai loro ben piu blasonati connazionali. So the story goes. Un doveroso omaggio, certo, ma anche un amara constatazione di come questo disco, per molti versi perfetto a partire dall’omaggio al giocatore di football piu punk rock di tutti i tempi e con una manciata di canzoni indimenticabili edificate su una muraglia chitarristica ostica e carezzevole meritava di essere, come é nei nostri cuori, molto piû in alto di un modesto n. 30. (M.B.)
La prima volta che mi è capitato d’ascoltarlo sono rimasto interdetto. Capitava di comprare i dischi per sentito dire o per la copertina, una volta. E non sempre ti andava bene. Questo dei Wedding Present lo comprai perchè ne scrivevano i tizi di Vinile, e quello che dicevano loro per me era legge. Poi la copertina fece il resto, in effetti. Capitava pure che un disco dovevi fartelo piacere per forza o comunque dovevi provarci per bene. Mica potevi cliccare un’altra volta play e passare oltre. Così a forza d’insistere i Wedding Present sono diventati la mia band preferita di quel periodo e ancora oggi mi bastano pochi secondi per riconoscerne qualsiasi canzone presente in questo disco. Una cosa che non potrà mai più capitarmi con nessun altro gruppo, evidentemente. (C.L.)
Col loro primo disco i Wedding Present indovinarono tutto: titolo, copertina e suoni. Innescarono in me un corto circuito che dura ancora oggi, ogni volta che lascio scendere la puntina sul disco e partono le note di Everyone thinks He Looks Daft. (A.C.)

29) Young Marble Giants – Colossal Youth (1980)

Leggendario ma, quanto meno dal sottoscritto, tutto sommato poco conosciuto album rimasto unico nella discografia del gruppo. Eppure, datato 1980, butta sul tappeto tutti gli ingredienti della generazione wave di lí da venire. Drum machine, chitarra nervosa, secca ed essenziale, basso che insinua funk al calor bianco, voce femminile che figlierá legioni di emule. Un obbligo riascoltarli per percepirne i conifini della grandezza. (M.B.)
Gli Young Marble Giants non somigliavano a nessuno e nessuno in seguito è riuscito a somigliare loro. Riuscivano allo stesso tempo a rendere ansiose le canzoni più allegre e a stemperare la tensione di quelle più elettriche. Tra i tanti meriti di Kurt Cobain iscriviamo anche la loro riscoperta, vistata in seguito anche dalla consorte Courtney Love che inserì un loro pezzo (Credit in the Straight World) nella scaletta di Live Through This delle Hole. (A.C.)

28) New Order – Temptation (1982)

1981. Torno dalla mia prima volta a Londra con una borsa carica di magliette dei Clash, poster e il 7″ di Ceremony versione New Order. Lo consumo con gli ascolti. Tempation, per alcuni solo la prova generale per Blue Monday, in realtá è anch’essa vera e propria pietra angolare con cui cominciare a sfondare la porta che ci impediva di accedere al dancefloor e ballare, oddio ballare…, al suono della “nostra musica”. (M.B.)
Oddio i synth, oddio il beat, oddio il pop…..vita dura quella dei New Order prima versione, con i fan dell’epoca Joy Division che si sentivano cornuti e mazziati. Mi ricordo le cronache dei primissimi concerti italiani che raccontavano di una parte del pubblico che passava il tempo a sputare al cantante. Io i primi dischi dei New Order invece li adoro, compreso questo brano uscito originariamente solo su singolo. (C.L.)
Temptation è stato il coltello infilato nella tela scura del post punk. Lo squarcio prodotto dal solco della lama lasciò intravedere quello che sarebbe venuto dopo: una lunga scia chimica che partì dall’Hacienda fino a lambire le coste di Spike Island: gruppo di importanza incalcolabile. (A.C.)

27) Franz Ferdinand – Take Me Out (2004)

Simpatici sono simpatici i FF e questo pezzo ascoltato in ogni contesto ti fa venire voglia di saltare scompostamente urlando. La prima volta che l’ho sentita ho pensato “fantastico, ne voglio ancora”. Ecco forse mi hanno preso un po’troppo in parola…Il limite degli scozzesi forse è stato ripetere, sempre molto dignitosamente per caritá, la medesima formula. Ma se mi invitate ad una festa assicuratevi di avere Take me out in scaletta. (M.B.)
Il loro live al Covo (13/03/2004) rimane uno degli high light di quel locale a me particolarmente caro e il dj set che preparai per il riscaldamento del pubblico pre concerto una delle cose di cui vado più fiero. Una lista di pezzi che comprendeva buona parte delle canzoni presenti in questa classifica, canzoni che poi erano la fonte di ispirazione dichiarata dai Franz Ferdinand. Gran bella cosa il loro primo disco: peccato che di lì in avanti i ragazzi si siano mossi solo con piccolissimi passi, quasi impercettibili. (A.C.)

26) The Libertines – What A Waster (2002)

Non discuto il loro valore, il carisma e la catchiness dei loro pezzi, la stramba dinamica Doherty/Barat, Albione, il romance, la tragedia e tutto quello che volete ma per chi, come me, nel 1980 aveva 16 anni e White Man In Hammersmith Palais sul piatto i Libertines resteranno sempre solo un piacevole diversivo e niente più. (M.B.)
Non si può sempre essere d’accordo su tutto. Questa è una grande canzone. Una delle pochissime dei Libertines. Che saranno pure una band mediocre, rovinata dalle droghe sbagliate. Ma questa canzone è un momento di celebrazione assoluta: la giovinezza che si staglia prepotente come dovrebbe sempre accadere in un grande brano pop. Quello che la rende però veramente gigante è quel sentimento di amarezza che viene a galla, come se la consapevolezza della fine (quantomeno dell’adolescenza) prendesse il sopravvento. (C.L.)
Al netto della facile, crescente e condivisibile ironia con cui col passare degli anni tutti noi abbiamo trattato il personaggio Pete Doherty e dimenticandoci quello che i Libertines hanno finito col rappresentare (praticamente i Doors della generazione hipster anni zero), i quattro londinesi hanno lasciato alcune canzoni che non posso fare a meno di continuare ad amare. Tra cui questa, il loro primo singolo. (A.C.)

25) The Loft – Up The Hill And Down The Slope (1985)

Insieme a Why Does The Rain una doppietta memorabile sferrata da Peter Astor a forza di chitarra serrata e melodie irresistibili al cuore di chi sognava nel chiuso della propria cameretta la ragazza carina intravista al pub locale ma con la quale non aveva il coraggio di parlare. Dopo verranno i Weather Prophets. Due grossi mattoni su cui verrá edificata la casa Creation. (M.B.)
La Creation Records è passata alla storia soprattutto per i dischi degli Oasis, in seconda battuta per quelli dei My Bloody Valentine. La mia storia personale invece l’hanno cambiata quattro singoli pubblicati tra il novembre dell’84 e il maggio dell’86. Uno di questi era Up the Hill and Down the Slope, gli altri tre Upside Down dei Jesus and Mary Chain, I’m Alright with You dei Pastels e Crystal Crescent dei Primal Scream. (A.C.)

24) The Vaselines – Son Of A Gun (1987)

Scozia, Nirvana, Sub Pop, storie di fama planetaria e di perdenti nati. Non posso aggiungere nulla che non sia giá stato detto meglio e più appassionatamente da Cesare Lorenzi su queste pagine non molto tempo fa. https://sniffinglucose.com/2014/07/02/v-for-nirvana/ (M.B.)
Il giorno in cui Eugene Kelly venne a suonare al Covo, inutile dirlo, io c’ero. Era un periodo in cui si erano spenti i riflettori accesi ad inizio ’90 dall’attenzione di Kurt Cobain e non si era ancora avviata la seconda vita dei Vaselines. Eugene Kelly era sul palco da solo, voce e chitarra. Suonò diverse canzoni del suo vecchio gruppo tra cui, ovviamente, Son of a Gun. Il concerto fu talmente ricco di emozioni e così pieno di ricordi da risultare semplicemente troppo. Quella notte, tornato a casa, non riuscii a chiudere occhio. (A.C.)

23) Happy Mondays – Lazyitis (1989)

Gli Happy Mondays prima delle pillole e dei mal di pancia. Uno strano gruppo funk rock storto prodotto da Martin Hannett con la voce perennemente scazzata, ma ancora lucida, di Shaun Ryder. Una strana canzone che scimmiotta Ticket to ride e mentre ci si appiccicava addosso, confusi, ci affacciavamo alla finestra e giá intravedevamo chiaramente Madchester. (M.B.)
Ecco, Madchester. Alla fine ho sempre preferito la versione pop dei Mondays, quella che arrivò dopo questa canzone, che flirtava con i suoni che uscivano dall’Hacienda e si distaccava dalle primissime influenze wave. Poche bands hanno rappresentato un’epoca come loro, che rimarranno per sempre quelli che attraversarono i confini. Magari senza troppo talento ma con lo spirito e l’attitudine. Alla fine non conta nient’altro. (C.L.)
Arrivarono a farsi produrre dischi da Martin Hannett e John Cale, da Paul Oakenfold e da Tina Weymouth e Chris Frantz dei Talking Heads. Fecero ballare una intera generazione e provarono a mandar giù più droghe di chiunque altro al mondo. Riuscirono praticamente a far fallire la Factory Records.
Ancora oggi mi chiedo come sia possibile che una coppia di fratelli sballati in compagnia di un ballerino fuori sincrono siano stati in grado di fare tutte queste cose, e sopravvivere a se stessi. (A.C.)

22) Aztec Camera – High Land Hard Rain (1983)

Quando abitavo a Roma c’era un negozio a due passi da casa mia chiamato Rock Set con una fantastica serranda con la raffigurazione della copertina di London Calling. Lo scaffale dei dischi usati era la mia destinazione prediletta e lí pescai una copia di questo album forse segnalato da Rockerilla. Da allora per un bel periodo nella mia cameretta sognavo pomeriggi piovosi scozzesi e dedicavo mentalmente Walk Out To Winter a graziose ragazze romane intraviste sulla metro. (M.B.)
Dischi come questi dovrebbero istituzionalmente essere destinati a fornire la colonna sonora per il principio di ogni storia d’amore. Ho sempre sognato di incantare una ragazza facendole ascoltare un disco del genere: non ci sono mai riuscito. (A.C.)
21) The Pastels – Up For A Bit With The Pastels (1987)

Ho sempre molto apprezzato i Pastels ma non è mai stato proprio un “mio” gruppo (per questo citofonare Compagnoni, please). Cionondimeno, riascoltato oggi, un disco fondamentale tra armonie ineffabili e sbilenche e la voce di Stephen Pastel svogliata e impegnata a gettare i semi in termini di ispirazione per una generazioni di cantanti a venire
Il tutto a certificare una egemonia impressionante delle band scozzesi del periodo. (M.B.)
Se uno mi dice Scozia e aggiunge “indie” non posso che non pensare a loro. Ho passato la mia giovinezza a fantasticare di aprire un’etichetta indipendente. Avrei voluto farlo solamente per pubblicare un loro singolo. Non mi sarebbe servito nient’altro, davvero. (C.L.)
Difficile spiegare i Pastels a chi non li conosce: una filosofia di vita più che una band. Per entrarci occorre farlo partendo dall’inizio, tanto più considerando il fatto che il loro primo album – Up for a Bit – a mio parere resta a tutt’oggi la loro cosa migliore. Tanti anni fa, mentre tutto attorno il mio mondo si stava sgretolando organizzai un viaggio itinerante in Scozia giusto un attimo prima di venire sommerso dalle macerie. Non ammisi con nessuno, nemmeno con me stesso, che il principale motivo per cui avevo deciso di intraprendere quel viaggio fosse fare visita al Monorail, il negozio di libri e dischi che Stephen Pastel aveva aperto in centro a Glasgow. (A.C.)

leggi la prima parte, i dischi dal  50 – 41

leggi la seconda parte, i dischi dal  40 – 31


2 risposte a “indie pop ain’t noise pollution (parte 3) 30-21”

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